La ricerca https://laricerca.loescher.it/ Periodico d’informazione e discussione didattica per la scuola media e superiore Tue, 25 Feb 2025 14:21:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.5 https://laricerca.loescher.it/wp-content/uploads/2020/06/cropped-favicon-32x32.jpg La ricerca https://laricerca.loescher.it/ 32 32 Ripensare la tradizione #4. Nel laboratorio di un poeta https://laricerca.loescher.it/ripensare-la-tradizione-4-nel-laboratorio-di-un-poeta/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ripensare-la-tradizione-4-nel-laboratorio-di-un-poeta Tue, 25 Feb 2025 08:09:20 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=24094 Analizziamo alcune poesie di Sandro Penna per provare a capire in che modo esse interpretano la tradizione, ne fanno uso e la tengono viva.

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Citare, che passione!

Sandro Penna dà alle stampe il suo primo libro, Poesie, nel 1939. Il primo e l’ultimo testo si rimandano per antitesi: il primo incomincia “La vita… è ricordarsi di un risveglio / triste in un treno all’alba…”, e l’ultimo, di soli due versi, dice “Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita”. “Vita” è quindi la parola che incornicia l’intero libro, che si apre con un triste risveglio e si chiude con un dolce sprofondare nel sonno – se il risveglio all’alba allude a una nascita, il sonno finale potrebbe simboleggiare la morte e quindi l’intero libro racchiude, per frammenti, il senso complessivo della vita, o la ricerca di questo senso da parte del poeta.

Questa non è l’unica indicazione di lettura che i testi estremi della raccolta forniscono a chi legge. Altrettanto importante è la scelta del poeta di ricorrere, in particolare in queste due poesie, al verso più usato nella tradizione italiana, e cioè l’endecasillabo. Nel pieno della stagione ermetica, novecentista, versoliberista, Penna esibisce una scelta controcorrente – e in tutto il libro conferma l’importanza che conservano per lui le regole del passato: versi, rime, strofe. Non mancano in Poesie momenti di maggiore libertà e di vera e propria irregolarità, certo, ma nel complesso Penna rende omaggio alla grande tradizione lirica dei secoli tra Duecento e Ottocento.

Questo omaggio assume spesso la forma della citazione, più o meno letterale, quasi sempre da testi celebri, ben riconoscibili dal lettore a cui si rivolge Penna. Ecco alcuni esempi:

È forse detto che l’amore umano
vano non debba rimanere mai…
Al cor gentil rempaira sempre amore
(Guinizzelli)
Amor ch’a nullo amato amar perdona
(Dante)
Mi nasconda la notte e il dolce vento Dolce e chiara è la notte e senza vento
(Leopardi)
Falsa primavera

…Ma effimero è alle cave
ansie il sole che ami.
Al vespro aspro, è grave
il cielo ai vecchi rami.

… Ma secco è il pruno e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
(Pascoli)
Già mi parla l’autunno…
…ascolto i miei pensieri
piegarsi sotto il vento occidentale
che scroscia sulle foglie… Poi mi chiudo nel letto. E mi saluta
il canto di un ragazzo…
…selvaggio vento occidentale, àlito
della vita d’autunno… da cui
le foglie morte sono trascinate… ascolta, ascolta!
(Shelley)
  … io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco…
(Leopardi)
Piove sulla città… Piange nel mio cuore
Come piove sulla città…
(Verlaine)
Interno

…sopra un tavolaccio
dormiva un ragazzaccio
bellissimo…

È come un ragazzaccio aspro e vorace…
(Saba)

Come si vede, siamo di fronte a “tessere” che il poeta inserisce in contesti nuovi, come è proprio del classicismo di ogni tempo. Che Petrarca o Poliziano lavorino in questo modo è ben noto, che lo faccia un poeta del Novecento non è invece scontato.

Giocare con le citazioni, però, può essere la strada più facile e in fondo ingenua per dare una patente di nobiltà ai propri versi. Entriamo allora nel laboratorio di Penna, esaminando più da vicino tre testi per capire il significato che assumono i riferimenti alla tradizione.

Gli occhi dell’angioletto

Tra le poesie più citate di questa prima raccolta penniana c’è la quartina di settenari che dice:

Trovato ho il mio angioletto
tra una losca platea.
Fumava un sigaretto
e gli occhi lustri avea.

L’estrema brevità del testo non impedisce al poeta di articolare, per accenni e allusioni, una minima vicenda: abbiamo due personaggi (il poeta e il ragazzo), un luogo ben preciso (un cinema “losco”, in senso letterale perché poco illuminato e in senso metaforico perché luogo di incontri erotici), e due gesti significativi (il ragazzo che fuma un piccolo sigaro e il poeta che lo avvicina.

In che modo il poeta trasfigura e diciamo pure nobilita la sordida realtà che descrive? Ricorrendo a un registro linguistico alto, come rivela il diminutivo raro “sigaretto” e l’arcaismo “avea”, ma soprattutto attraverso la scelta della metafora “angioletto”, che rimanda alla tradizione stilnovistica e petrarchesca. Due testi credo che risuonassero all’orecchio di Penna: “In un boschetto trova’ pasturella” di Guido Cavalcanti (Rime 46), dove si descrivono gli “occhi pien d’amor” della fanciulla e si narra poi come l’incontro si risolva in un rapporto sessuale; e il madrigale di Petrarca “Nova angeletta sovra l’ale accorta” (Canzoniere 106), che si conclude anch’esso con un riferimento agli occhi da cui “sì dolce lume uscia” (che diventa “lustri” nella quartina di Penna).

Il richiamo alla lirica delle origini non è un fatto isolato, anzi è una costante nella produzione penniana, e basti a confermarlo la presenza in Croce e delizia (1957) di questa “pastorella” sui generis:

Andavo già piangendo fra la gente
il mio perduto seme senza amore.
Raccolse le mie lacrime un pastore
leggero, attento, intatto, indifferente.

E, subito dopo, di un altro testo in cui, come nelle “albe” provenzali, si parla di amanti costretti a separarsi dallo spuntare del sole:

“Lasciami andare se già spunta l’alba.”
Ed io mi ritrovai solo fra i vuoti
capanni interminabili sul mare…

Torniamo alla quartina dell’angioletto. All’innalzamento del tono contribuisce anche la scelta metrica: la quartina di settenari rimati abab riprende il ritmo tipico dell’odicina settecentesca e quindi conferisce al testo un carattere vagamente arcadico. Penna, da poeta del Novecento, e da poeta “maledetto”, gioca sullo scontro fra alto e basso, sublime e infimo: il suo angelo non bada alle pecorelle modulando canti d’amore sulla zampogna, ma fuma un sigaro “fra una losca platea”… Insomma, il poeta accentua i richiami alla tradizione proprio nel momento in cui affronta una tematica scabrosa e conturbante.

Ricordo di Esterina

Il secondo testo che prendiamo in esame è la poesia intitolata Nuotatore. È formata da soli tre versi endecasillabi, due dei quali sono però spezzati, sicché il testo risulta disposto su cinque righe:

Dormiva…?

                      Poi si tolse e si stirò.

Guardò con occhi lenti l’acqua. Un guizzo

il suo corpo.

                        Così lasciò la terra.

L’estrema brevità della poesia, anche in questo caso, non deve farci sfuggire il suo carattere narrativo. Il poeta, nel primo emistichio, contempla un giovane disteso sulla spiaggia e si chiede se è addormentato. Nella parte centrale si concentra l’azione (il ragazzo si alza, si stira, guarda l’acqua, si tuffa), affidata a una serie di verbi, tutti al passato remoto: due nella prima frase, uno nella seconda, nessuno nella terza, che è quindi una frase nominale. Molto interessante il contrasto ritmico che viene a crearsi tra la misura standard dell’endecasillabo, perfettamente rispettata, e quella delle frasi, che contraddicono e frantumano tale misura: la prima frase costituisce un ottonario, la seconda un novenario (ma con gli accenti disposti irregolarmente rispetto alla norma che li prevede sulla seconda, quinta e ottava sillaba metrica), la terza un senario. La conclusione, evidenziata dallo stacco grafico, attua il passaggio dalla descrizione alla trasfigurazione (il ragazzo “lascia la terra”, diventa una creatura tra acquatica e celeste), e nello stesso tempo il ritorno a una misura più classica, quella del settenario.

È proprio la conclusione a ricordare al lettore attento un’altra poesia che racconta una situazione simile e si conclude in maniera quasi identica, e cioè Falsetto di Montale (in Ossi di seppia, 1925). Montale si rivolge a una giovane di nome Esterina, svolgendo per una quarantina di versi il confronto tra il proprio atteggiamento verso la vita e quello della ragazza, e conclude:

T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti tra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.
Ti guardiamo noi, della razza

di chi rimane a terra.

I punti di contatto con Nuotatore sono flagranti: la situazione narrata è la medesima, il poeta si colloca nella stessa posizione “contemplativa” rispetto all’oggetto della sua attenzione, che passa dall’immobilità allo slancio improvviso del tuffo in mare, e la conclusione è quasi una citazione letterale. Penna tuttavia non imita il poeta ligure, piuttosto vi si contrappone: ai 51 versi di Falsetto fanno riscontro tre endecasillabi; all’abbondanza di dettagli della poesia montaliana, che sente il bisogno di precisare nome ed età della protagonista, di sviluppare una serie di similitudini, di circondarla di presenze concrete minuziosamente descritte (lo scoglio, il sole, il sale, il ponticello), risponde una ricerca di massima concentrazione, che riduce tutto il contesto a un solo elemento senza aggettivi, “l’acqua”; e alla sintassi articolata e alla musicalità distesa del poeta ligure Penna ribatte con frasi del tutto prive di subordinazione, frantumando gli endecasillabi e negandone il ritmo per affidare la ricerca sonora a tre rime grammaticali (stirò : guardò : lasciò) e a insistite allitterazioni (Si tolSe e Si Stirò; Guardò… un Guizzo; Lenti L’acqua; il suo Corpo. Così). In altri termini, è come se Penna dicesse ai suoi lettori: non in quel modo (con analisi, descrizioni, paragoni ecc.) si fa poesia, ma questo (con un lavoro di sintesi radicale, di riduzione all’essenziale).

Una risposta a Saba

È la stessa riflessione metaletteraria che traspare dalla poesia finale del volume, già citata sopra. Penna si richiama in questo caso a un testo di Saba, il secondo dei tre che costituiscono Dopo la giovanezza, nella raccolta La serena disperazione (1913-1915): quando “l’amorosa immagine balena”, dice Saba,

Ignaro nell’incanto entra il bambino,
che giunto a pubertà dorme supino.

Là si desta, e non sa di che, fiaccato,
e vivere vorrebbe addormentato…

Penna cita con una minima variazione l’ultimo verso citato, ma laddove Saba inscena le proprie contraddizioni, articolandole in un discorso che le porta alla luce e le discute e tenta di fare chiarezza nei più riposti meandri della coscienza, Penna preferisce l’affermazione apodittica, la sentenziosità dell’epigramma, la sintesi (ancora una volta) contrapposta all’analisi. Saba sceglie un metro artificioso come il distico a rima baciata, ripetendo per tre volte lo stesso numero di versi (14, come quelli del sonetto), Penna si affida a una musicalità più sotterranea, quella delle allitterazioni (ViVere Vorrei… Vita) e delle assonanze (dOlcE rumOrE).

La tradizione come dialogo

«Poche figure», scrive Mario Praz, «riescon così meschine come quella dello scopritore di fonti, quando costui si manifesti sotto specie di spennacchiatore di corone di lauro». Proviamo dunque a ricavare qualche conclusione più utile da queste osservazioni.

La prima è che alludere alle pastorelle medievali o citare Saba e Montale non è, da parte di Penna, un’esibizione erudita. Come tutti i poeti, gli scrittori, gli artisti, Penna non opera in solitudine, ma all’interno di un “discorso” collettivo – volta a volta dialogo, dibattito, discussione, scambio, polemica. Nessun testo, nemmeno il più lirico e autobiografico, può prescindere da ciò che lo precede e lo accompagna. La frase troppo spesso citata, «non si può essere un grande poeta bulgaro», è un’esagerazione che contiene una verità: non è impossibile, ma è difficilissimo, perché sono mancati alla letteratura bulgara i Dante, i Petrarca, cioè i punti di riferimento condivisi.

Riconoscere gli elementi costitutivi di questo dialogo a distanza tra autori, opere e testi, come ho provato a fare in questo intervento e in quelli che l’hanno preceduto, non è uno “spennacchiare corone di lauro”: è un aspetto del piacere di leggere, perché scoprire una citazione, riconoscere una voce, cogliere un rimando o un riferimento, ci fa sentire partecipi di quel discorso collettivo…

E infine: se consideriamo la tradizione non come un museo, ma come un dialogo vivo e dinamico, evitiamo due errori purtroppo ancora diffusi: quello di confondere conoscenza e nozionismo, che della conoscenza è la caricatura, o l’imbalsamazione; e quello di attribuire alla conoscenza della propria tradizione un valore identitario, di chiusura nei confronti di tradizioni diverse e lontane – al contrario: è proprio approfondendo la conoscenza della propria tradizione che ci si rende conto di quanto varia e aperta sia una cultura nei suoi momenti più vitali e nei suoi esponenti più significativi.

(fine)

Ripensare la tradizione #3. I miti della modernità

Ripensare la tradizione #2. I silenzi di Manzoni

Ripensare la tradizione #1. La conservazione del fuoco

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La guerra in classe, tra le righe https://laricerca.loescher.it/la-guerra-in-classe-tra-le-righe/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=la-guerra-in-classe-tra-le-righe Sun, 23 Feb 2025 12:30:08 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=24066 La letteratura come documento: due proposte di percorsi tematici da affrontare in quinta superiore.

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Opera composta dal pittore surrealista Paul Nasch durante la Prima guerra mondiale.

Lungo l’arco della scuola secondaria di secondo grado, studiando letteratura si intercettano incessantemente le risonanze di guerre che hanno riguardato più o meno da vicino la vita di poeti e scrittori. Ma forse mai come nel corso del quinto anno, quando si attraversa il Novecento, è possibile osservare così da vicino e attraverso un gran numero di testimonianze la natura e le implicazioni di un conflitto di grandissime proporzioni.

L’inedita e spropositata violenza delle guerre mondiali fu tale da provocare una profonda trasformazione nel modo di percepire e rappresentare la realtà in molti di coloro i quali assistettero, direttamente o indirettamente, a quei traumatici eventi. I due conflitti che hanno funestato la prima metà del XX secolo sono stati l’epicentro di un ripensamento che ha coinvolto, fra l’altro, le categorie di corpo umano e urbano. L’eredità più ingombrante della Prima guerra mondiale, infatti, è stata il corpo dei reduci, tornati a casa con le tracce indelebili degli orrori sperimentati al fronte; in seguito, la Seconda guerra mondiale ha portato avanti con mezzi ancor più radicali la cancellazione dell’essere umano, compromettendone irreparabilmente l’integrità (basti pensare ai corpi resi cenere nei lager o polverizzati dalle atomiche). Entrambi i conflitti hanno poi trasfigurato i luoghi nei quali si sono svolti: la «Zona» di guerra si è estesa progressivamente, seguendo un movimento centripeto che dalle trincee porta in città, sicché i paesaggi della Grande guerra – cariati da mitragliatrici, cannoni e mortai – hanno lasciato ben presto il passo alle devastazioni urbane provocate dai bombardamenti aerei della guerra «Grandissima»1.

Nel corso del quinto anno, in classe, solitamente ci si accosta a questi drammatici eventi con la lettura parziale o integrale di libri che raccontano di esperienze vissute (Ungaretti, Sereni) o narrano storie a tema (Calvino, Fenoglio). Ma è anche possibile ipotizzare dei percorsi didattici tematici con i quali attraversare le guerre mondiali: due temi che possono essere proposti alle classi riguardano per l’appunto il corpo e la città. Debitamente inquadrati nell’opportuno contesto storico, questi percorsi raccoglieranno voci diverse, da approfondire con sondaggi più o meno consistenti in base all’interesse del docente e della classe, per dare conto dell’importanza e della pervasività che raggiunsero dopo le guerre le riflessioni intorno al corpo sfigurato e alla città distrutta. La letteratura funzionerà dunque come «documento»2 capace di testimoniare efficacemente una svolta nella visione del mondo occidentale all’indomani del 1918 e del 1945. Per questi percorsi è previsto inoltre il coinvolgimento di altre discipline: la storia, naturalmente, le letterature straniere, la storia dell’arte e il diritto.

Il corpo in guerra

La Prima guerra mondiale provocò, oltre ai milioni di morti, un elevatissimo numero di invalidi e mutilati3; l’immagine del corpo ferito o dilaniato del soldato torna infatti con insistenza in numerose opere del tempo. La classe può iniziare a prendere consapevolezza del rilievo di questa figura – il superstite sfregiato – muovendosi sui territori familiari della poesia italiana: un punto di partenza efficace sono senz’altro i versi di Rebora («C’è un corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata», Voce di vedetta morta; «O ferito laggiù nel valloncello […] Tra melma e sangue / Tronco senza gambe», Viatico) e di Ungaretti («Una intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata», Veglia); attraverso l’Ungaretti del Porto Sepolto, peraltro, oltre alla lettura a campione di testi significativi, si possono inseguire piste lessicali, come il lemma «fibra» – il «brandello di tessuto organico nel quale, alla fine, si riconosce ridotto l’essere umano, spogliato di tutto»4 – per ricostruire e analizzare il campo semantico bellico elaborato dal poeta di Alessandria.

In seguito, insieme al o alla docente di storia dell’arte, la classe può confrontare le descrizioni dei poeti italiani con la rappresentazione dei soldati feriti offerta da alcuni artisti: un esempio è il pittore tedesco Otto Dix, tanto nel trittico La guerra (Der Krieg, 1929-32) quanto nei Giocatori di Skat (Die Skatspieler, 1920), nel quale sono raffigurati i corpi martoriati di reduci di guerra tragicamente rammendati e aggiustati.

Si possono poi affiancare le opere di autrici e autori stranieri con le e i docenti di letteratura inglese e, eventualmente, di altre lingue. Un esercizio che si può tentare con alcune classi è la lettura di Ellen La Motte, infermiera americana volontaria in Belgio durante la guerra, poco nota in Italia e non ancora tradotta. Nel suo libro di racconti, The Backwash of War (1916), reperibile gratuitamente in rete, un testo emblematico è A Surgical Triumph, che narra di una operazione di «rebuilding» su di un uomo gravemente ferito durante la guerra. Si può tentare un laboratorio di traduzione del racconto, diviso per parti su cui lavorare in gruppi.

In alternativa, non solo con quanti studiano altre lingue, si possono leggere – e non obbligatoriamente in originale – le testimonianze di altri autori, come lo spagnolo Miguel de Unamuno o il tedesco Leonhard Frank (il docente può preparare una piccola antologia di testi di questi autori da distribuire alla classe)5. Questi naturalmente sono solo alcuni nomi possibili fra i vari che possono essere individuati: ciò che conta è mostrare alla classe quanto il tema del corpo sfigurato dalla guerra sia sentito all’indomani della Grande guerra e venga sviluppato da diversi autori. Maggiore sarà il numero di esempi riportati, più sarà evidente alla classe che si tratta di un tema di estrema rilevanza.

Al termine di questa prima parte del percorso, una prima acquisizione è quindi che il corpo passato attraverso la Prima guerra mondiale non ne uscì indenne, tutt’altro: si tratta di un corpo le cui cicatrici raccontano eloquentemente l’eccezionalità di quel conflitto, diverso per intensità e violenza da tutti quelli combattuti prima di allora.

A questo punto, la classe può essere condotta nella seconda parte del percorso attraverso il confronto tra il corpo prodotto dalla Prima guerra mondiale e quello compromesso irreparabilmente dalla Seconda. Perché a differenza del conflitto che insanguinò mezzo mondo fra il 1914 e il 1918, la guerra successiva, portata avanti con strumenti di morte ancor più distruttivi, suscitò nell’immaginario collettivo l’immagine di un corpo annichilito, oramai ridotto ai minimi termini, quasi integralmente cancellato, provocando inoltre l’insorgenza di una nuova, tragica consapevolezza: non era più solo l’essere umano a poter essere ucciso, ma l’intera umanità.

Ecco dunque che la letteratura racconta di questa svolta inaudita con pagine ustionanti: un testimone d’eccezione in Italia è Primo Levi, tanto con il racconto Angelica farfalla (in Storie naturali, 1966), quanto con un drammatico apologo da I sommersi e i salvati (1986) in cui si rivela la sorte delle «ceneri umane» dei deportati, che diventano «materiale da calpestare» nei lager6; ugualmente significative, in questo senso, le descrizioni dei reperti esposti nel Museo atomico di Nagasaki fatte da Günther Anders7, a cui si può accostare la visione del film Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais.

In aggiunta, si possono evocare artisti celebri e altri meno noti, proiettando in classe tanto le cause delle trasformazioni dei corpi – dalle torture nei gulag rappresentate dai raccapriccianti disegni di Foma Jaremtschuk alla serie di teste degli Ostaggi (1942-45) di Jean Fautrier nate dalla visione delle esecuzioni di partigiani francesi a opera dei nazisti –, quanto gli effetti – i corpi scomposti di Picasso, a partire da Guernica (1937), o quelli dipinti da Francis Bacon dopo il 1943.

Come la storia dell’arte, anche il diritto può offrire spunti utili ad arricchire il quadro. In questo senso è possibile leggere la novità segnata dall’articolo 1 della Costituzione della Repubblica Federale Tedesca con il Grungesetz, la Legge fondamentale del 1949, che indicava nel valore riflessivo della «dignità» (Würde)8, posto come articolo incipitario della carta in sostituzione del valore illuministico dell’uguaglianza, il perno ideologico su cui rifondare la giustizia dopo le sperimentazioni naziste sui corpi delle cavie (il cosiddetto «materiale umano»)9. E con il docente della materia si può ragionare su questa innovazione nella grammatica giuridica in consonanza con le risposte alle bordate della storia provenienti da altre discipline.

La città in guerra

Un altro percorso possibile, simile per struttura e andamento (ragionare sulla guerra mettendo a confronto gli effetti della Prima e della Seconda guerra mondiale accostando documenti da diversi ambiti), riguarda la città. Anche in questo caso è possibile prendere le mosse dai versi dei poeti italiani che hanno partecipato alla Grande guerra, e ancora una volta i versi di Rebora («sul paese che fu», Fonte nelle macerie) e di Ungaretti («qualche / brandello di muro», S. Martino del Carso) sono il primo viatico per valutare le conseguenze della Grande guerra sul paesaggio italiano10; si possono però tentare anche strade meno battute, poeti meno frequentati11, oppure rivolgersi ad autori più recenti, come Andrea Zanzotto («tra pezzi di guerra sporgenti da terra», Rivolgersi agli ossari).

In aggiunta, la classe può vedere il panorama italiano postbellico in Umanità (1919)12, di Elvira Giallanella, un film dall’eccezionale valore documentario (è stato girato nelle zone del Carso subito dopo la fine della guerra) oltre che testimonianza preziosa di una pellicola diretta da una donna.

Con il/la docente di storia, la classe imparerà le novità nel modo di combattere introdotte durante la Prima guerra mondiale, e su tutte l’uso di aeroplani e dirigibili13 per bombardare, oltre che gli obiettivi militari, anche le città: la guerra, da questo momento, riguarderà sempre più la vita dei civili.

Collateralmente, studiando letteratura inglese sarà possibile leggere la testimonianza di prima mano di Virginia
Woolf, che nei suoi Diari, alla fine di ottobre del 1917, racconta del «buco» provocato da uno Zeppelin a Piccadilly Circus14; in alternativa, si potranno seguire le riflessioni di Herbert G. Wells, che nel suo romanzo di fantascienza La guerra nell’aria (1908) aveva previsto le conseguenze catastrofiche di un conflitto combattuto con mezzi aerei.

A questo punto, la classe può essere condotta nella seconda parte del percorso attraverso il confronto tra gli stravolgimenti dei paesaggi provocati dalla Prima guerra mondiale e le devastazioni senza precedenti provocate dalla Seconda. Rispetto alla Grande guerra, stavolta la «Zona»15 di guerra si è estesa e dai confini dei Paesi ha raggiunto le città, che diventarono il teatro principale degli scontri, dando vita a un vero e proprio fronte urbano lungo il quale vennero combattute alcune delle battaglie decisive della Seconda guerra mondiale (su tutte, quella di Stalingrado).

In letteratura, Elsa Morante ha raccontato il bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma con pagine memorabili nella Storia (1974). La classe potrebbe leggere il libro integralmente in anticipo, o il/la docente potrebbe preparare un estratto dal romanzo16. Inoltre, per restare in Italia, poeti e poete, scrittori e scrittrici hanno riflettuto sulla condizione del Paese alla fine della guerra, a macerie ancora calde; da Nord a Sud, ne hanno scritto Giorgio Bassani, Dino Buzzati, Giorgio Caproni, Emilio Cecchi, Stefano D’Arrigo, Eduardo De Filippo, Natalia Ginzburg, Carlo Levi, Salvatore Quasimodo, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Raboni, Umberto Saba, Vittorio Sereni, Elio Vittorini e tanti altri17. Il docente può scegliere i testi più congeniali, anche per prossimità geografica, e magari valutare l’opportunità di una gita in una località che ancora reca traccia della Seconda guerra mondiale.

Un’esperienza toccante, che si può realizzare anche online, è la visita “virtuale” di alcuni piccoli paesi che sono stati distrutti dalla guerra e, per volontà degli abitanti superstiti, al termine del conflitto non sono stati ricostruiti, diventando così musei a cielo aperto di quella insensata distruzione: Gessopalena in Italia e Oradour-sur-Glane in Francia18. Utile, in questo senso, anche la visione del film Germania anno Zero (1948) di Roberto Rossellini.

Questi due percorsi si rivolgono a ragazze e ragazzi dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado e sono pensati per promuovere una riflessione pluriangolare sulle guerre mondiali attraverso lo studio delle rappresentazioni – letterarie ma non solo – degli effetti dei due conflitti sul corpo e sulle città.


NOTE

  1. G.L. Weinberg, World of Arms. Global History of World War II, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 3.
  2. J. Le Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia, direzione R. Romano, Einaudi, Torino 1978, V, pp. 38-48.
  3. B. Bracco, La patria ferita. I corpi dei Soldati italiani e la Grande guerra, Giunti, Firenze 2012; M. Salvante, Italian Disabled Veterans between Experience and Representation, in S. McVeigh, N. Cooper, (a cura di), Men After War, Routledge, New York-London 2013, pp. 111-29.
  4. A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, Bompiani, Milano 2018, p. 245.
  5. M. de Unamuno, L’agonia dell’Europa. Scritti della Grande Guerra, a cura di E. Lodi, Medusa, Milano 2014; L. Frank, L’uomo è buono, trad. it. P. del Zoppo, Del Vecchio, Avellino 2014 (specialmente il racconto I mutilati di guerra, pp. 229-271).
  6. P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, 2 voll., Einaudi, Torino 1997, II, p. 1089.
  7. G. Anders, Diario di Hiroshima e Nagasaki. Un racconto, un testamento intellettuale, Ghibli, Milano 2014, pp. 131-133.
  8. E. Resta, Biodiritto, in Enciclopedia Italiana Treccani, Treccani, Roma 2009, pp. 43-53; S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 140-210, 250-97.
  9. S. Marinozzi (a cura di), Medicina eugenetica e shoah. Ricordare il male e promuovere la bioetica, Sapienza Università Editrice, Roma 2017.
  10. M. Giancotti, Paesaggi del trauma, Bompiani, Milano 2017.
  11. Basta sfogliare A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba cit.
  12. La pellicola è di difficile reperibilità, ma si possono trovare delle scene online.
  13. Cfr. F. Minniti, La rivoluzione verticale. Una storia culturale del volo nel primo Novecento, Donzelli, Roma 2018.
  14. V. Woolf, Diari, a cura di G. Granato, vol. I. 1915-1919, Bompiani, Milano 2022, pp. 81-83.
  15. E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, trad. it. R. Falcioni, il Mulino, Bologna 1985.
  16. Alternative possibili: K. Vonnegut, Mattatoio n. 5 (1969) o W.G. Sebald, Austerlitz (2001).
  17. Mi permetto di rinviare a T. Gennaro, «Tra quanto resta di macerie». Le rovine di guerra nell’Italia del Novecento, «L’ospite ingrato» 14, II (2023), pp. 59-72.
  18. A. Tarpino, Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi, Torino 2008, pp. 133-177.

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Agenda IA https://laricerca.loescher.it/agenda-ia/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=agenda-ia Thu, 20 Feb 2025 12:47:57 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=24048 Lœscher editore e La ricerca invitano studenti e docenti a scrivere insieme l’agenda del prossimo anno scolastico, dedicata all’intelligenza artificiale.

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Il dibattito sull’intelligenza artificiale si è fatto sempre più acceso, soprattutto da quando i servizi di intelligenza artificiale generativa come ChatGPT e Gemini sono entrati nella vita quotidiana di tante persone e nelle scuole. «I bot sono le nuove app», affermava Satya Nadella, CEO di Microsoft, alla Conferenza per sviluppatori nel 2016, in occasione del lancio di Cortana; sette anni dopo, 50 esperti del Center for AI Safety nel 2023 dichiaravano che «Mitigare il rischio di estinzione [dell’umanità] da parte dell’I.A. dovrebbe essere una priorità globale insieme ad altri rischi su scala sociale come le pandemie e la guerra nucleare».

Quale può essere oggi un utilizzo professionale ragionevole e significativo di questi «assistenti artificiali ad attività cognitive mediante prestazioni che imitano quelle umane» (la definizione è di Marco Guastavigna)? Quali sono le pratiche attualmente più diffuse? Ma anche: come hanno cambiato il nostro presente, a scuola e fuori, e come lo cambieranno in futuro?

Sono molte e molti gli insegnanti che si informano, ragionano sull’impatto che questi strumenti possono avere sull’apprendimento nella loro disciplina come nella vita di tutti i giorni e provano a elaborare esercizi o a inventare attività didattiche, innanzitutto per aiutare la classe a orientarsi tra le tante varianti e i tanti risvolti e promuovere la consapevolezza di rischi e opportunità dei diversi dispositivi. E cresce costantemente il numero di studenti che ricorre all’IA per svolgere i compiti assegnati dall’insegnante o per i propri bisogni personali, muovendosi autonomamente tra gli strumenti ormai disponibili.

Dopo aver dedicato due numeri della rivista (La ricerca 18La ricerca 25) e un Quaderno della Ricerca (il 75) a limiti e potenzialità dell’intelligenza artificiale, oggi vogliamo dare la parola a insegnanti e studenti, affinché possano esprimere le loro idee in proposito, fornire riscontri di prima mano, rilevare abbagli, rischi, prospettive, usi creativi, cantonate, ma anche opinioni personali, riflessioni etico-filosofiche…

L’Agenda Scuola Amica dell’anno 2025/2026, quindi, sarà dedicata all’IA a scuola e per la scuola, ospitando brevi testi prodotti dalle autrici e dagli autori della rivista «La ricerca» e da insegnanti e studenti della rete “Scuola Amica”.

Ci aspettiamo dunque minitesti di docenti e studenti – mi raccomando, max. 480 caratteri spazi inclusi! – con:

  • citazioni da libri, articoli, discorsi, documentari, programmi internazionali ecc.;
  • frasi, aforismi, brevi testi originali, che siano il frutto dell’elaborazione personale o di gruppo svolta all’interno della classe;
  • frasi scritte con il supporto dell’IA (in tal caso deve essere dichiarato il tipo esatto di IA utilizzato) relative all’IA stessa.

Qui mettiamo a disposizione un po’ di materiale: una Dispensa per le scuole con alcuni spunti didattici (una traccia per la tipologia B dell’Esame di Stato e stimoli per discussioni in classe), e un elenco di Materiali per orientarsi tra le IA, con i link ad articoli e webinar.

Per partecipare, la scuola deve fare parte della rete “Scuola Amica” de La ricerca.

  • Se si ha già aderito, è sufficiente inviare alla redazione – all’indirizzo info.laricerca@loescher.it – le vostre frasi o segnalazioni (max 480 caratteri spazi inclusi), entro lunedì 14 aprile 2025.
  • Aderire alla rete delle “Scuole Amiche” è facile e gratuito: basta scaricare il modulo da sottoscrivere e inviarlo a info.laricerca@loescher.it. Le “Scuole Amiche” che partecipano sono inserite sul sito della rivista e ovviamente sull’agenda.

Data la disponibilità limitata di spazi, l’invio di un contributo non comporta obbligatoriamente la pubblicazione sull’agenda: la redazione selezionerà e adatterà alle esigenze editoriali quelli più significativi.

Di seguito la spiegazione del progetto “Scuola Amica” e la lettera di adesione alla rete «Scuola Amica» da copiare e incollare su carta intestata e da inviare a laricerca@loescher.it.


Che cos’è il progetto Scuola Amica della Ricerca di Loescher editore

«La ricerca» è una testata libera, indipendente, distribuita e pubblicata online a titolo gratuito e senza pubblicità. Nasce dal settore “Ricerca e sviluppo” di Loescher, editore scolastico da sempre, e oggi ancora di più, interessato a capire la scuola contemporanea e a fornire strumenti e aiuto ai docenti nel loro lavoro quotidiano, nell’aggiornamento e nell’autoformazione.

Il progetto Scuola Amica consiste nella realizzazione di una rete informale di scuole finalizzata a stabilire un rapporto diretto con e tra docenti, dirigenti, operatori, genitori, i quali potranno fornire feedback e suggerire temi, argomenti e idee alla redazione della rivista «La ricerca».

Trattandosi di un progetto sostenuto dalla rivista con risorse proprie, non è richiesto alcun impegno economico da parte di chi vi aderisce. Si tratta di una collaborazione alla pari, in cui le scuole manifestano il loro interesse alla rivista e instaurano un collegamento privilegiato con la redazione, in modo da favorire lo scambio di informazioni e dare risalto a iniziative, progetti, eventi.

Le scuole che aderiscono sono elencate in una pagina del sito della rivista. Di ogni scuola viene riportato il nome e il link diretto al suo sito. A loro volta, le istituzioni scolastiche che hanno aderito inseriscono sul loro sito un link che rimandi al progetto e al sito della rivista «La ricerca».

  • «La ricerca» si impegna a tenere vivo il rapporto con ciascuna scuola attraverso le sue pagine Facebook e Twitter, e mettendo a disposizione delle scuole la sezione Scritto da voi, dove previa approvazione è possibile pubblicare brevi articoli che segnalano e raccontano esperienze e attività di interesse comune.
  • La redazione della rivista si impegna inoltre a coinvolgere le scuole in alcune iniziative di scrittura e di lettura che vengono via via sottoposte ai docenti (per esempio, la realizzazione dell’Agenda Scuola Amica di Loescher editore o altre attività analoghe).
  • Le scuole si impegnano a tenere vivo il rapporto con la rivista pubblicando sul proprio sito il link https://laricerca.loescher.it/, che rinvia direttamente ai contenuti della testata.

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LETTERA DI ADESIONE DA COPIARE E INCOLLARE SU CARTA INTESTATA E DA MANDARE A LARICERCA@LOESCHER.IT:

LETTERA DI ADESIONE
al progetto “Scuola Amica” della Ricerca di Loescher editore

Spett.le Direzione della rivista
«La ricerca» di Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18
10121 Torino (TO)
laricerca@loescher.it

Oggetto: Adesione al progetto “Scuola Amica” della Ricerca di Loescher editore

 

Il/la sottoscritto/a:

Dirigente scolastico dell’Istituto:

con la presente dichiara di aderire, a titolo gratuito e senza impegno di risorse, al progetto “Scuola Amica della rivista «La ricerca» di Loescher editore”.

L’adesione al progetto è finalizzata a favorire la partecipazione eventuale di docenti e studenti della scuola alle attività proposte dalla rivista «La ricerca» alle Scuole Amiche, quali, per esempio, la pubblicazione di articoli sulla sezione riservata al progetto del suo sito, la realizzazione dell’Agenda Scuola Amica di Loescher editore, ed eventuali ulteriori iniziative di scrittura e di lettura.

Con la presente si autorizza la redazione della rivista a inserire nella pagina internet dedicata al progetto (https://laricerca.loescher.it/scuolaamica.html) il nome, l’indirizzo e il link al sito della scuola, e si impegna la scuola a inserire il link https://laricerca.loescher.it/ sul sito dell’Istituto.

Luogo e data                                                                                               Firma

 

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Ripensare la tradizione #3. I miti della modernità https://laricerca.loescher.it/ripensare-la-tradizione-3-i-miti-della-modernita/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ripensare-la-tradizione-3-i-miti-della-modernita Sun, 16 Feb 2025 10:02:47 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=24038 Cos’è che permette a un personaggio di diventare un mito?

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Orlando muore intorno alla metà della chanson che l’ha reso famoso, ma questo non gli ha impedito di avere una lunghissima vita successiva, con avventure, amori, viaggi e follie in decine e decine di poemi. A P.D. James, nota giallista inglese, è venuto in mente di raccontare la maturità di Elizabeth Bennet, ma senza grande successo, in Morte a Pemberley: l’eroina di Orgoglio e pregiudizio termina in realtà la sua vita letteraria a ventun anni, nel momento in cui sposa mister Darcy.

Tutti i miti (al contrario delle vicende che restano “romanzesche” e non chiamano in causa situazioni archetipiche) sono aperti a infinite reinterpretazioni, e lo sappiamo bene: è accaduto e continua ad accadere, nella nostra tradizione occidentale, con le grandi figure dell’Antico Testamento, con i cicli mitologici greci, e naturalmente con i miti nati in età medievale e moderna, come Tristano e Isotta, Don Chisciotte, don Giovanni, Carmen (di cui parlavo in un intervento qualche settimana fa), Faust e così via. Ma cos’è che permette a un personaggio di diventare un mito? Quali sono le caratteristiche che gli garantiscono vitalità culturale in epoche lontane e in contesti culturali diversi? Proviamo a osservare più da vicino tre esempi.

Il patto col diavolo

Il personaggio letterario di Faust, come spiegano tutte le enciclopedie, nasce grazie alla penna di un mediocre pamphlettista tedesco, Johann Spies. Nel 1587 costui pubblica la Storia del dottor Faust, ben noto mago e negromante, ispirata a un ciarlatano, vissuto tra il 1480 e il 1540 nel Württemberg, che millantava di saper evocare gli spiriti e operare magie. Attorno a questo personaggio circolavano voci di un patto segreto con le forze infernali, che inevitabilmente facevano presa sulla fantasia popolare. Spies ha buon gioco nel raccontare il destino di dannazione eterna a cui il suo malvagio protagonista appare inevitabilmente condannato, dando spazio a episodi fantasiosi e grotteschi, che garantiscono il successo della sua opera, prima in Germania e poi all’estero.

Pochi anni dopo, nel 1601, il grande drammaturgo inglese Christopher Marlowe pubblica La tragica storia del Dottor Faust. Il personaggio di Marlowe conserva alcune caratteristiche del Faust “popolare” di Spies, che stringe un patto col diavolo per avere Mefistofele al suo servizio e danna la sua anima per uno sregolato desiderio di ricchezze, di potere, di piaceri sensuali. Marlowe è ancora legato a un immaginario medievale, con angeli e diavoli che si contendono l’anima del peccatore, sfilate allegoriche di vizi e virtù, scene buffonesche in cui Faust prende volgarmente in giro il papa e si esibisce compiendo magie davanti all’imperatore. Ma introduce due elementi nuovi, di importanza decisiva: il primo, che Faust non è solo un geniale ciarlatano, ma una figura iperbolica, eccessiva, larger than life, come si dice in inglese, intollerante di regole e limitazioni, e quindi è dotato, anche nel male, di una fascinosa grandezza; il secondo, che Faust è un uomo sensuale, ma non volgare (come invece il personaggio di Spies), e lo dimostra la sua reazione di fronte alla bellezza: quando sente che la fine si avvicina chiede a Mefistofele di poter vedere Elena di Troia, di fronte alla quale pronuncia, rapito, i versi più famosi dell’opera: “È questo il volto per cui salparono mille navi / e bruciarono le altissime torri di Ilio? / Dolce Elena, rendimi immortale con un bacio…”

La vicenda di Faust, naturalmente, è oggi legata soprattutto al nome di Goethe, che vi si impegnò per tutta la vita: dal 1774, all’epoca della sua adesione allo Sturm und Drang, fino alla morte. In Goethe la sete di conoscenza diventa la principale ragione che spinge Faust a stipulare un patto con Mefistofele: Faust infatti è un intellettuale, uno studioso, che vuole arrivare a scoprire il principio primo delle cose, cioè a comprendere l’universo come potrebbe comprenderlo Dio stesso; e per raggiungere questo fine, dopo aver passato la vita a studiare invano, tenta la strada della magia e dell’occultismo, accettando il rischio di essere travolto dal Male pur di progredire nella sua ricerca oltre i limiti normalmente concessi agli uomini. Lo streben (questo il verbo con cui Goethe indica la tremenda tensione intellettuale ed emotiva del suo eroe) fa di questo Faust un emblema della modernità borghese, della sua aspirazione a una espansione infinita, alla conquista di sempre nuovi campi, allo svelamento di sempre nuovi enigmi e misteri. Aspirazione diabolica, Goethe lo intuisce perfettamente, ma non priva di una sua nobiltà: e infatti ad essa Faust sacrifica ogni più sacro valore e ogni più puro sentimento, ma alla fine del poema la sua anima viene salvata. “Chi sempre faticò a cercare, noi possiamo redimerlo”, dicono gli angeli nel momento in cui il protagonista muore, riconoscendo la lodevolezza della sua esigenza spirituale (che è in ultima analisi quella dell’Ulisse dantesco: “Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”).

Lo scienziato pazzo

Si capisce bene perché Faust abbia continuato, dopo Marlowe e Goethe, ad affascinare gli scrittori, fino a Thomas Mann (Doktor Faustus,1943-1947) e a Michail Bulgakov (Il maestro e Margherita,1928-1940), nonché i musicisti e gli artisti figurativi, e soprattutto i registi cinematografici (da Friedrich Murnau a René Clair ad Alec Baldwin, che ha firmato Il patto con il diavolo nel 2003). L’idea di una vita scandita da esperienze sempre più estreme, alla ricerca dell’attimo perfettamente bello in cui il tempo potrebbe fermarsi, e l’idea di un accrescimento infinito delle conoscenze, slegato da qualunque considerazione di tipo etico – sono alla base della mentalità che ha dominato l’Occidente dal momento in cui, tra XVII e XVIII secolo, si è affermata la concezione moderna di progresso.

Come in tutti i grandi miti, accanto alle versioni artisticamente più pregevoli, la messe di problemi legati alla figura di Faust ha trovato un’ampia eco nella cultura popolare. Frankenstein di Mary Shelley (1818) non è certo un capolavoro paragonabile al Faust di Goethe, ma che vi sia una parentela tra i due protagonisti è indiscutibile. Il dottor Frankenstein è un piccolo Faust che gioca a essere Dio (un “apprendista stregone”, se vogliamo restare nell’ambito delle metafore goethiane). Come è noto, il risultato dei suoi sforzi non è la creatura ideale da lui sognata, ma un mostro condannato all’infelicità (e quindi, con un automatismo psicologico non proprio raffinatissimo, alla malvagità). E siccome il medico (più di ogni altro scienziato) diventa nel corso dell’Ottocento una figura emblematica della modernità, ecco la numerosissima schiera dei nipotini di Frankenstein, dal dottor Jekyll di Stevenson al dottor Moreau di Wells agli scienziati pazzi di P.K. Dick e di altri autori di fantascienza, ai film e ai fumetti sempre più corrivi che tentano con vario successo di variare lo stereotipo.

Si capisce bene anche perché Faust si affermi come figura archetipica all’epoca in cui si afferma la visione del mondo borghese ancora dominante nel nostro tempo, e in particolare l’idea di un progresso (scientifico e tecnologico, oltre che economico e sociale) potenzialmente infinito.

Il naufrago

Facciamo un passo indietro. Nel 1719 un giornalista inglese quasi sessantenne, Daniel Defoe, decide di tentare la strada del romanzo e scrive La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio – dando vita a un’altra figura destinata a immensa fortuna.

Unico superstite del naufragio della sua nave, Robinson ha a disposizione pochi strumenti essenziali, ma è animato da una fanatica fede in sé stesso (solo nel corso del romanzo sviluppa anche la fede in Dio) e da una straordinaria intelligenza pratica, e grazie a ciò riesce a trasformare la “sua” isola in un piccolo paradiso, praticando la caccia, la raccolta, l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato, insomma a riportare la wilderness (la natura selvaggia) sotto il dominio della civiltà – che per lui coincide ovviamente con la civiltà europea del suo tempo, i suoi principi etici, le sue leggi, la sua tecnologia (non escluse le armi da fuoco…).

Il romanzo di Defoe, in verità, non si basa tanto sulla notizia di cronaca riportata dalle enciclopedie (la storia dello scozzese Alexander Selkirk, che visse per quattro anni su un’isola dell’Oceano Pacifico), quanto su due filoni letterari e filosofici, quello del “buon selvaggio” (che entra in gioco nel momento in cui Robinson incontra il mite e ubbidiente Venerdì e lo salva dai cannibali, cioè dai selvaggi “cattivi”) e quello dell’“utopia” (la comunità ideale, perfettamente organizzata, di cui Robinson diventerà il governatore, accogliendo altri naufraghi e coloni). È inevitabile intravedere in questa vicenda i tratti fondamentali dell’utilitarismo filosofico da un lato e del colonialismo dall’altro (la sottomissione spietata, per quanto ben intenzionata, della natura e degli indigeni, ottenuta grazie alla superiore tecnologia europea). Due riscritture recenti giocano la loro originalità proprio sull’incontro fra Robinson e Venerdì: ne La parete (1963) della scrittrice austriaca Marlen Haushofer, la protagonista si trova isolata dal resto del mondo, in alta montagna, da una misteriosa parete trasparente, e riesce a organizzare la propria sopravvivenza finché non incontra un uomo (che è costretta a uccidere); in Foe (1986) del premio Nobel sudafricano J.M. Coetzee, la protagonista, abbandonata su una zattera dopo un ammutinamento, giunge su un’isola dove trova un naufrago, Cruso, e un indigeno senza lingua, Venerdì (il fatto che Venerdì sia privo della lingua, e quindi incapace di parlare, assume un valore simbolico molto forte – il colonialismo ha privato le popolazioni sottomesse della possibilità di esprimersi e di raccontare la propria storia).

Robinson ha ispirato un vero e proprio genere letterario, quello che gli inglesi chiamano “robinsonade”: il racconto di uno o più naufraghi su un’isola deserta. Rientrano in questo genere decine di opere, tra cui ricordiamo Il Robinson svizzero di J.R. Wyss (1812), L’isola misteriosa di J. Verne (1874), La laguna azzurra (1908) di Henry De Vere Stacpoole, numerosi racconti e romanzi di fantascienza (in cui l’isola è in genere sostituita da un pianeta sconosciuto e i “selvaggi” sono creature aliene). Ma Robinson ha ispirato anche testi di spessore ben diverso, dall’Emilio di J.-J. Rousseau (per l’educazione del bambino equiparato a un buon selvaggio) a Walden di H.D. Thoreau (per l’ideale della self-reliance, la capacità di contare su sé stessi, rifiutando tutti i condizionamenti sociali).

Di particolare interesse il rovesciamento del mito operato dal romanzo Il signore delle mosche (1954) del premio Nobel William Golding, in cui un gruppo di ragazzini inglesi su un’isola deserta si trasforma in una tribù di feroci selvaggi; dal film Cast Away (2000) di Robert Zemeckis, in cui il protagonista, quando finalmente torna alla civiltà, si scopre escluso da un mondo che ha continuato a vivere mentre lui sopravviveva nel più completo isolamento; e da un altro film, Into the Wild (2007) di Sean Penn, che narra la vicenda di un giovane idealista che, sulla scorta proprio di Walden, tenta di sopravvivere a contatto con la natura selvaggia, fuggendo la civiltà, e soccombe miseramente. L’ottimismo di Robinson, portavoce della civiltà borghese nel suo momento espansivo, lascia spazio in queste opere a un realismo amaro, indizio di una diversa consapevolezza del rapporto tra natura e cultura, wilderness e società.

Conclusioni provvisorie

Gli esempi potrebbero continuare. Ma cosa ricaviamo da queste informazioni – perché dovremmo addentrarci in questi che a molti sembreranno percorsi eruditi, specialistici? Rispondo proponendovi due riflessioni, ricavate dalla mia esperienza personale di lettore, che le storie qui sintetizzate mi sembrano confermare.

La prima riflessione è che nessun mito, ma in generale nessun personaggio letterario e nessuna vicenda romanzesca, si possono ridurre alla lettera del testo, a una mera successione di parole. Il testo infatti, per “funzionare” in quanto narrazione, ha bisogno della cooperazione di chi legge, e questo significa mettere in gioco la propria fantasia, la propria esperienza del mondo, in una parola la propria umanità. Nella nostra mente, il personaggio e la sua vicenda acquistano una vita che va al di là delle parole usate dallo scrittore: pur essendo privo di concretezza fisica, il personaggio vive nella realtà interiore di chi legge – ed è per questo che può arricchirsi nel tempo, vivere nuove avventure, assumere significati impensati da colui o colei che l’ha inventato. Faust, Frankenstein e Robinson hanno avuto la ventura di interpretare temi e problemi decisivi dell’età moderna e contemporanea, diventando miti universali a dispetto degli evidenti limiti artistici di J. Spies, di D. Defoe e di M. Shelley che li hanno creati, perché le loro vicende offrivano una ricchezza di possibilità interpretative a prescindere dalla qualità della scrittura. Sono stati i lettori, in altri termini, a trasformare questi personaggi e le loro vicende in grandi miti universali – lettori eccezionali come Marlowe o Goethe, certo, ma non solo: chiunque di noi, in misura diversa, contribuisce a creare la tradizione e ha la responsabilità di tenerla viva.

La seconda riflessione riguarda ancora il concetto di tradizione, il suo farsi e il suo senso. Confondere tradizione e tradizionalismo è uno degli errori a cui ho assistito negli anni più importanti della mia formazione, gli ormai lontani anni Settanta, e di cui vedo con dispiacere le conseguenze. Il tradizionalismo, cioè la museificazione della cultura, non ha niente a che vedere con la capacità di cogliere in un libro o in un film gli echi e i rimandi che gli danno spessore e valore. In un’epoca che tende a svalorizzare la profondità e a bollare come “pedantesca” erudizione (o “sterile”, a piacere…) il fatto di non confondere Manzoni con Verga, o Don Giovanni con Don Chisciotte, trasmettere alle nuove generazioni i punti di riferimento fondamentali, e spiegare perché lo sono, e perché ignorarlo costituisce un impoverimento, un’ingiustizia, un furto, a me continua a sembrare importante.

(continua)

Leggi il primo e il secondo articolo.

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Una passeggiata tra i funghi: la Micoteca di Torino #2 https://laricerca.loescher.it/una-passeggiata-tra-i-funghi-la-micoteca-di-torino-2/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=una-passeggiata-tra-i-funghi-la-micoteca-di-torino-2 Sun, 16 Feb 2025 09:49:35 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=24031 Le sue ricerche potrebbero cambiare le nostre abitudini nel futuro prossimo e plasmare la concezione dei funghi nel mondo.

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Foto dell’autore.

Camici bianchi e biosicurezza

Appena sono entrato nella Micoteca, Matteo Florio Furno[1] mi ha accolto con il sorriso e una contagiosa dose di entusiasmo. Avevamo programmato quell’incontro da qualche tempo ed ero curioso di sapere cosa avrei scoperto. Non ero mai entrato in un laboratorio come quello: intorno a me si affaccendavano diverse ricercatrici con indosso un camice bianco, mentre misteriosi macchinari in azione custodivano quelli che dovevano essere materiali preziosi sotto osservazione. Matteo ha iniziato subito a raccontarmi dove mi trovassi: il laboratorio è un’eccellenza nel panorama italiano e sono molti gli studenti o gli aspiranti ricercatori che desiderano farvi parte, purtroppo però l’alta domanda non può essere soddisfatta totalmente perché i posti sono limitati. Questo inconveniente ha anche dei vantaggi: chi si trova in quell’edificio ha competenze di altissimo livello ed è completamente coinvolto nel proprio lavoro di ricerca.

Inizio a esplorare le stanze e comprendo di trovarmi in un luogo fuori dal comune. I laboratori sono organizzati secondo due livelli di biosicurezza (di classe 1 e 2), ovvero luoghi che contengono organismi non patogeni (classe 1) o potenzialmente patogeni per animali e piante, esseri umani compresi (classe 2). A seconda del livello di rischio, ovviamente, i laboratori sono strutturati in modo da incrementare le misure di sicurezza. Devo ammettere che sono rimasto piuttosto colpito da questa informazione, e probabilmente ho iniziato a guardarmi intorno con circospezione. Allo stesso tempo, però, mi sono sentito catapultato in una delle avventure del professore di storia dell’arte ed esperto di simbologia Robert Langdon, il protagonista dei libri dello scrittore statunitense Dan Brown che mi attiravano tanto quando avevo qualche anno in meno. Presto, però, quell’aura di mistero è stata sostituita da una sana e costruttiva sete di scoperta: mi sono sentito un bambino in un mondo totalmente inesplorato che riceve un flusso continuo di input e stimoli. Il mio obiettivo era quello di capire quali ricerche venissero sviluppate in quell’edificio, che per me rappresentava ancora un grosso punto interrogativo.

Lieviti divoratori e microplastiche

La Micoteca riceve un’enorme varietà di funghi da analizzare. I campioni provengono da matrici ambientali diverse (acqua, aria, suolo) e da ogni luogo della Terra, dalla montagna al mare, fino all’Antartide. Quando giungono in laboratorio trascorrono un periodo in quarantena per essere osservati, dopodiché vengono isolati, caratterizzati e identificati, quindi conservati in una capsula di Petri, un contenitore trasparente a forma di disco. Mi è subito chiaro che ogni fungo è diverso dagli altri e ha le proprie esigenze e necessità per vivere. Del resto, anche ognuno di noi ha delle preferenze: c’è chi vive meglio in città, chi al mare o in montagna, chi apprezza un clima più secco e soleggiato e chi invece trova la propria condizione ottimale in un ambiente fresco e ombroso. In modo analogo, i miceti hanno i loro bisogni e i ricercatori devono riprodurli all’interno delle capsule che li contengono per garantirne la corretta crescita. Gli organismi termofili preferiranno alte temperature, i mesofili un ambiente tra i 10°C e i 25°C, mentre i termotolleranti si adattano piuttosto bene alle variazioni termiche. E lo stesso discorso vale per il tipo di terreno in cui crescono, che deve essere riprodotto nel modo più fedele possibile.

Nel corso della sua ricerca di dottorato, Matteo si è occupato soprattutto di funghi che crescono sulle microplastiche in mare. Come sappiamo, il tema delle microplastiche – ossia pezzi di plastica dalle dimensioni inferiori ai cinque millimetri – è di estrema attualità, poiché costituiscono una delle principali fonti di inquinamento ambientale. Il suo compito era di isolare i funghi che crescevano su di esse e capire se ci fosse una varietà fungina rispetto all’ambiente circostante. Le domande che si è posto più spesso sono: quale tipo di fungo sto osservando e qual è la differenza con quelli intorno? Qual è il suo comportamento? Ai fini della ricerca, infatti, era molto importante comprendere da dove venisse il campione osservato. Poteva trattarsi di un individuo (ceppo) che si era originato in montagna per poi essere trasportato fino al mare. In alcuni casi, quindi, si poteva imbattere in specie patogene o alloctone, che se si trovano bene nell’ambiente in cui arrivano lo colonizzano, con esiti potenzialmente distruttivi per l’ecosistema preesistente.

Un altro aspetto molto interessante che ha curato è quello biotecnologico, in particolare in riferimento al micorisanamento, che consiste nell’utilizzo di miceti per decomporre sostanze inquinanti. È emerso che alcuni lieviti raggiungono risultati promettenti nella degradazione di alcuni materiali plastici come il poliuretano (che troviamo nelle bombolette spray isolanti, negli imballaggi, nell’edilizia e nel settore automobilistico) e per questo motivo le ricerche attuali stanno andando in questa direzione.

Fino a quel momento, i lieviti per me erano sempre stati associati all’immagine di una stanza accogliente, una tavola imbandita di piatti e leccornie, come filoni di pane croccante e boccali traboccanti di birra. Sentire che questi funghi possono essere coinvolti anche nella scomposizione di sostanze inquinanti è stata una piacevole scoperta. Del resto, per i funghi in ambito culinario ho sempre avuto una passione quasi sconsiderata, che alcuni amici potrebbero definire simile a una fissazione. E da diverso tempo le loro forme assurde e i singolari comportamenti di cui sono capaci hanno catturato la mia attenzione. L’esplorazione nel mondo fungino in cui mi ero avventurato non stava certo deludendo le mie aspettative.

Due funghi della Mut nella capsula di Petri. Aspergillus flavus (a sinistra), importante contaminante di alimenti e noto produttore di micotossine e Aspergillus niger (a destra), importante contaminante di alimenti e noto produttore di micotossine, ma importantissimo a livello biotecnologico per produzione di acido citrico, e moltissimi enzimi. (Credits: Micotheca Universitatis Taurinensis).

Costruire con i funghi

Giovanna Cristina Varese[2] mi fa cenno di entrare nel suo studio. La trovo seduta alla scrivania attorniata da una fitta mole di libri, fogli e materiali da lavoro. Dalla finestra si scorge un rettangolo dell’Orto botanico su cui affaccia il laboratorio: è un quadro bucolico che restituisce immediatamente una diffusa sensazione di tranquillità. A prima vista nella stanza non sembra esserci traccia di funghi, ma ormai sono sospettoso e sono certo che si celino più o meno ovunque. Anche perché poco prima Matteo mi ha mostrato qualcosa di straordinario, aprendomi le porte di quella che probabilmente è la più grande ricchezza della Micoteca. All’interno di un’ampia cella frigorifera è conservato il numero impressionante di 7.180 funghi in crescita attiva. Oltre 7.000 funghi – avete capito bene! – che crescono e vivono, rappresentando un patrimonio di diversità e conoscenza inestimabile. Sono estasiato e attonito, potrei trascorrere le ore a osservarli a uno a uno nelle loro forme e colori. I funghi sono collocati all’interno di tubetti che contengono il nutrimento necessario a farli vivere per due anni, dopodiché devono essere spostati in un nuovo contenitore. I diversi ceppi vengono preservati tramite due processi distinti: la liofilizzazione e la criopreservazione, che avviene a -152°C, così nel caso in cui un campione venisse perso si potrebbe ricorrere all’altro senza rinunciare a questa enorme ricchezza.

Come sospettavo, anche nello studio di Cristina i funghi non tardano a manifestarsi, e tendono a farlo sempre nelle forme più improbabili. Questa volta mi ritrovo in mano una struttura rettangolare lunga circa quanto l’avambraccio di un adulto, estremamente leggera, porosa e dal colore grigiastro. L’elemento a cui sembra assomigliare maggiormente è il polistirolo, ma presto scopro che si tratta di materiale da imballaggio realizzato con micelio fungino pressato, esposto all’Expo di Milano nel 2015.

Oggi i biomateriali a base di fungo vengono progettati sia per l’interno sia per l’esterno. Una delle aziende più attive a livello mondiale in questo campo è la statunitense Ecovative, ma – come mi spiega Cristina – il loro utilizzo pone ancora dei problemi, soprattutto per l’outdoor. Se si pensa di produrre materiali 100% compostabili occorre studiare attentamente dove posizionarli, perché rischiano di degradarsi. Nel caso in cui invece vengano protetti con materiale impermeabilizzante, si perderebbe quel carattere di totale compostabilità. Le premesse, però, sono incoraggianti e già oggi si producono diversi biomateriali fungini come nel caso dei pannelli fonoassorbenti. Inoltre, questa tecnologia alimenta il processo di economia circolare. I funghi infatti sono biodegradabili, per crescere si possono nutrire di scarti che altrimenti andrebbero sprecati e probabilmente hanno anche una tenuta maggiore rispetto alla plastica. Insomma, se siamo disposti a dargli fiducia sembra che il nostro futuro possa diventare molto più fungino di quanto già non lo sia, anche se tendiamo a non accorgercene.

La più grande ricchezza della Mut, la collezione di oltre 7.000 funghi in attiva crescita. (Credits: Micotheca Universitatis Taurinensis).

Il materiale grezzo che fa girare il mondo

Sentire parlare Cristina è coinvolgente, è un fiume in piena che mi inonda di informazioni preziose, o sarebbe più corretto dire come un micelio che si sposta sempre un po’ più in là e mi apre a qualche nuova scoperta. È completamente assorbita dal suo rapporto di conoscenza con i funghi e trasmette il desiderio di seguirla in questo percorso. Dei funghi enfatizza la bellezza dei colori, in quanto contengono tutte le tonalità immaginabili, ma anche l’intelligenza, poiché se con questo concetto intendiamo “percepire uno stimolo e reagire”, allora essi sono intelligenti. Ma ne sottolinea anche il ruolo che hanno ricoperto nell’evoluzione della vita – allargando il discorso ai microrganismi, a cui alcuni funghi appartengono – perché senza di loro le piante non avrebbero mai conquistato le terre emerse, mentre oggi svolgono una funzione fondamentale per la regolazione degli ecosistemi. Mi propone anche un elenco dettagliato degli usi che noi esseri umani facciamo dei funghi e dei microrganismi (alcuni impensabili), tra cui compare la produzione di pigmenti, vitamine, ormoni e antibiotici; alimenti[3] come formaggi e salumi; detersivi per piatti e vestiti; e persino l’effetto bianco-striato che ci fa ritenere i nostri jeans all’ultima moda. Tutto questo conoscendo solo il 5-7% della biodiversità dei funghi nel mondo.

Ciò che Cristina sottolinea con più intensità, però, è la percezione che le persone hanno di questi straordinari esseri viventi. Quando si parla di funghi o microrganismi, tendiamo ad associarli alla malattia o alla sporcizia, mentre essi sono “il materiale grezzo che fa girare il mondo”. Il chimico e microbiologo Louis Pasteur nel 1800 disse che se avessimo trascorso una settimana senza i microrganismi il nostro pianeta sarebbe morto. Inoltre, una delle grandi difficoltà a cui vanno incontro questi esseri viventi è quella di non essere visti. La maggior parte dei funghi, così come dei microrganismi, è talmente piccola o cresce in luoghi così nascosti da sfuggire ai nostri occhi. È bene ricordare, però, che i microrganismi costituiscono il 90% della biomassa marina e il 70% di quella dell’intero pianeta. Inoltre, si tratta di forme di vita estremamente intelligenti e complesse, basti pensare che la struttura più simile alla rete neuronale è quella del micelio del fungo, e noi oggi le trattiamo con indifferenza o come se fossero esseri inferiori.

A questo proposito, l’Università di Torino e la Micoteca sono impegnate in un’attiva azione di divulgazione e nel 2019, in occasione del Meeting Annuale dell’European Culture Collections’ Organization tenutosi a Torino, è nata l’idea di allestire la mostra “Microrganismi straordinari”, che raccoglie foto, ingrandite migliaia di volte, di virus, batteri, microalghe, funghi e simbionti (qui il tour virtuale). L’esposizione sta venendo riproposta in diverse università italiane e sta per approdare anche in Brasile, confermandosi un’occasione importante per fare conoscere questo mondo solo in apparenza così distante e per renderlo visibile.

Foto dell’autore.

Sono trascorse alcune ore da quando ho mosso i primi misurati passi in questo mondo sconosciuto. Il freddo sole di novembre è ormai tramontato e l’Orto al di fuori della Micoteca si sta colorando di una morbida luce blu, mescolata a quella più calda delle lampade che si accendono dietro ai vetri delle case. Vorrei restare ancora molte ore a incunearmi in ogni anfratto e “segreto” di questo incredibile laboratorio, ma i micologi hanno alcuni impegni da portare a termine e mi hanno già dedicato molto tempo prezioso. Prima di andarmene Cristina mi guarda e percepisco che ha un’ultima speranza da svelarmi, perché il volto è irradiato da un altro sussulto di energia: «Sono convinta che i funghi cambieranno il mondo. E lo hanno già cambiato».

Me ne vado con questa convinzione. Io non posso fare altro che ringraziarla per il regalo che mi ha fatto concedendomi questa esperienza incredibile ed essere grato ai funghi, soprattutto a loro, per avermi permesso di fare capolino – anche solo per poche ore – nell’intimità della loro quotidianità. Saluto Matteo, senza cui non sarei potuto essere lì e che mi ha svelato ogni sfaccettatura di vite e ricerche entusiasmanti, oltre che necessarie. Mentre sono pronto a gettarmi di nuovo nel mio solito mondo urbano ci promettiamo di rivederci su un campo di padel, lì dove ci eravamo incontrati. Ma onestamente, di ricevere un’altra macroscopica sconfitta non ho davvero voglia.

La prima parte è qui.


Note

[1] Matteo Florio Furno è dottorando in Scienze Biologiche e Biotecnologie Applicate e Tecnico della ricerca dell’Università degli Studi di Torino.

[2] Giovanna Cristina Varese è Professore ordinario dell’Università degli Studi di Torino in Botanica Sistematica e Responsabile Scientifico della Micotheca Universitatis Taurinensis.

[3] Uno dei progetti di ricerca di cui mi hanno parlato Matteo e Cristina è quello della produzione di micoproteine, ossia proteine ottenute dalla crescita del micelio su diversi sottoprodotti agrofood, alternative a quelle animali e vegetali. Le micoproteine sono pensate soprattutto per essere impiegate come mangimi per gli allevamenti e rappresentano un’alternativa sostenibile: i funghi vengono fatti crescere su scarti come bucce di pomodoro, pane, esuvie (la muta) degli insetti e fondi di caffè. Inoltre comporterebbero un consistente abbattimento dell’uso di suoli e acqua.

Ringraziamenti

Poche e sintetiche righe per esprimere grandi ringraziamenti. Alla Mut e all’Orto botanico di Torino, per la conoscenza e la bellezza che coltivano ogni giorno. A Matteo Florio Furno e a Giovanna Cristina Varese, per avermi accolto e svelato le loro attività fungine. A Caterina Gaspardo Moro, che ha curato l’Orto botanico da febbraio a novembre 2024. Amica e giardiniera, senza cui non sarebbe stato possibile questo splendido intreccio di ife. Grazie.

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Dulce et decorum (non) est pro patria mori https://laricerca.loescher.it/dulce-et-decorum-non-est-pro-patria-mori/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=dulce-et-decorum-non-est-pro-patria-mori Sat, 15 Feb 2025 08:20:59 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=23787 Dal numero 27 de La ricerca: fake news, lobbismo e stragi dal mondo antico.

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Rilievo rupestre di Naqsh-e Rostam con Shapur I che tiene prigionieri Valentiniano e Filippo l’Arabo – foto di Mauro Reali.

Il grande storico militare Yann Le Bohec mi ha più volte invitato come relatore ai suoi convegni tenuti a Lione sull’esercito romano. Probabilmente lo ha fatto perché io – che storico militare non sono mai stato, ma ho scritto spesso dei soldati come persone – potevo garantire un punto di vista più “sociale” e meno “bellico” rispetto agli altri presenti, super esperti di armi, tattiche e strategie. Insomma: ci voleva forse uno come me, che ha svolto il servizio di leva obbligatorio come pacifico addetto alla fotocopiatrice, per parlare dell’amicizia tra soldati, cioè l’unico rapporto «non gerarchico» tra i militari di ogni tempo, in un congresso dedicato proprio alla «gerarchia»1!

Errori e orrori della guerra antica 

Così, dopo che la redazione della nostra rivista ha scelto per questo numero l’argomento della «guerra», ho pensato di avvicinarmi al tema in una chiave particolare. Perché se è pur vero che i Greci, ma soprattutto i Romani, hanno largamente coltivato la guerra come valore (oltre che come necessità storica) e che il mondo classico non conosce un pacifismo, per così dire, ideologico, è altrettanto vero che non mancano testimonianze di come questa abbia condotto a errori e orrori2. Proprio di ciò vorrei trattare, e dunque più di sconfitte che di vittorie, più di anti-eroi che di eroi, con il pensiero che corre subito ad Archiloco (VII sec. a.C.), poi emulato da Orazio (Odi, II, 7), che non prova vergogna ad aver perso lo scudo in battaglia per salvare le penne, affermando: «Lo scudo? Al diavolo! Uno più bello me ne rifarò» (fr. 6 Diehl, trad. F. Maria Pontani)3.
Prima di arrivare al mondo romano, ambito che mi è più familiare, vorrei trattare brevemente di due aspetti della Guerra del Peloponneso, che vide Atene e Sparta fronteggiarsi per quasi trent’anni (431-404 a.C.)

Il pacifismo non ideologico di Aristofane 

Aveva proprio ragione il filosofo Eraclito (VI-V sec. a.C.) quando scriveva: «Il conflitto (pólemos) è padre di tutte le cose e di tutte è re: e gli uni fece dèi, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri liberi» (fr. 53 Diels-Kranz = 14 Diano, trad. C. Diano)4. Infatti la guerra (in greco pólemos, appunto) voluta dallo stratego ateniese Pericle (subito morto) e proseguita (e perduta) dai suoi successori – a noi ben nota per il racconto del contemporaneo Tucidide – è stata anche «padre» di enormi sofferenze per la popolazione civile, che ha maturato nel tempo una sorta di pacifismo non ideologico, più privato che pubblico. Se ne è fatto interprete il poeta comico Aristofane, che negli Acarnesi (425 a.C.) sbeffeggia il demagogo Cleone e il guerrafondaio generale Lamaco ed erge a protagonista Diceopoli, un piccolo proprietario terriero che nella finzione teatrale, per evitare la fame, stringe una pace privata con Sparta, quasi un anticipo di quella labile tregua (la “pace di Nicia”) che il poeta celebrò con La pace (421 a.C.). Che dire poi delle donne che – nella Lisistrata (411 a.C.) – cercano di convincere i mariti alla pace con un argomento molto convincente come lo “sciopero del sesso”? I drammi aristofanei, insomma, denunciano tramite l’uso della parresίa («libertà di parola») uno scollamento tra la gente comune «stanca di guerra» (mi si perdoni la citazione di Jorge Amado) e la bellicista classe dirigente di Atene, la quale – a propria volta – era tutt’altro che coesa, anzi5.

Le fake news di guerra contro Alcibiade 

Busto di Alcibiade, Roma, Musei Capitolini (da Wikipedia).

Ciò perché pólemos divide sempre, e se anche l’aforisma «in guerra la verità è la prima vittima» non fosse di Eschilo – come tradizionalmente si crede – sarebbe comunque veritiero. Lo si è visto nel 415 a.C. quando, proprio nell’imminenza della spedizione navale di Atene contro la filo-spartana Siracusa, capitanata da Nicia, Lamaco e Alcibiade, quest’ultimo fu colpito da una valanga di fake news – affidate alle testimonianze di delatori – che affermavano che «per abbattere la democrazia erano avvenute le parodie dei misteri e la mutilazione delle erme, e che niente di tutto ciò era stato fatto senza la complicità di Alcibiade» (Tucidide, Guerra del Peloponneso, 6, 28, trad. F. Ferrari)6. Ma chi può davvero credere che il più nobile dei tre ammiragli abbia passato la vigilia della partenza a distruggere le statue degli dèi? Assai più probabile che dietro queste false accuse ci fosse – come ha scritto Luciano Canfora7 – un oscuro conflitto tra eterίe (simili alle moderne lobby) magari originato dall’invidia per un incarico così prestigioso, sentimento che avrebbe potuto nascere sia da parte di membri del suo stesso partito (quello «democratico») sia dagli esponenti di quello «oligarchico». La conseguenza di tutto ciò fu disastrosa, perché Alcibiade, richiamato in patria per il processo, tradì Atene e si rifugiò a Sparta, rivelando importanti segreti militari: l’ingloriosa fine della spedizione siciliana e di tutta questa lunga guerra – che fece tramontare l’egemonia ateniese sulla Grecia – è nota, e non serve che la ricordi. Ciò che vorrei però ribadire è che dal “muscolare” esordio pericleo, dall’aspettativa di una sorta di “guerra lampo”, il conflitto è stato poi per Atene un susseguirsi di malumori popolari, contrasti e tradimenti politici, diffuse menzogne, disfatte militari; eppure erano passati solo pochi decenni dalla gloria di Maratona (490 a.C.), località dove gli Ateniesi (con pochi alleati) avevano sconfitto il Gran Re e preservato la libertà delle póleis.

Le guerre giuste e ingiuste di Roma 

I Romani avevano l’ossessione del bellum iustum («guerra giusta») e c’erano perfino dei sacerdoti, i feziali, che dovevano garantire che così fosse. Sicuramente come iniustum («ingiusto») il poeta di età neroniana Lucano descrisse nel suo Bellum civile il conflitto tra Cesare e Pompeo avvenuto un secolo prima: si trattò infatti (vv. 1-2) di bella… plus quam civilia («guerre più atroci delle civili») nelle quali ius… datum sceleri («il crimine è divenuto diritto»)8. I Romani hanno dunque scordato il diritto (ius è etimologicamente legato a iustum) e, con atto scellerato (lo scelus è un delitto gravissimo, lesivo della pietas religiosa), si sono massacrati a vicenda – continua Lucano – con danni maggiori di quelli provocati da nemici storici come Pirro o Annibale; ciò invece di infliggere «guerre giuste» a popoli ostili, come quei Parti che avevano strappato le insegne legionarie a Crasso nella battaglia di Carre (53 a.C.).

Ma non sempre (anzi quasi mai) ciò che è giusto e/o sbagliato per Roma lo è per suoi nemici. Così infatti il capo caledone Calgaco parla dei conquistatori romani nell’83 d.C. prima di sfidarli in battaglia al Monte Graupio, nell’odierna Scozia:

Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace. (Agricola, 30 trad. G. D. Mazzoccato)9.

Chi riporta il discorso è Tacito – grande storico e nobile senatore romano di età antonina – il quale non era certo né filo-britanno né pacifista, ma anzi vedeva con favore l’ecumenica diffusione del diritto e dalla cultura di Roma. Però, da buon conoscitore dell’animo umano, è stato in grado di comprendere in profondità (pur senza giustificarle) le ragioni dei nemici. E non è un caso che la straordinaria frase ubi solitudinem faciunt, pacem appellant sia divenuta nel tempo cara alla propaganda anti-militarista: con lo slogan «hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace», ad esempio, venne convocata il 23 aprile del 1967 a Firenze una manifestazione contro la guerra USA in Vietnam!

Sconfitte che bruciano 

Corazza dell’Augusto da Prima Porta, Musei Vaticani (Wikipedia)

Calcago parlava di un bellicismo camuffato da pace, ma per i Romani la pax era una cosa molto seria, addirittura divinizzata, come appare della consacrazione dell’Ara Pacis per opera di Augusto nel 9 a.C. Sul versante diplomatico, la pax – connessa al verbo paciscor («faccio un patto») – prevedeva un foedus («trattato di pace»), che il più delle volte era iniquum («dispari») in quanto dettato da Roma agli hostes («nemici») che aveva sottomesso. E pensare che hostis è termine etimologicamente legato e in origine semanticamente affine a hospes («ospite»), col significato di «straniero»: poi quest’ultimo divenne lo straniero cui si dava hospitium («ospitalità, accoglienza»), mentre il primo era quello cui spettava il bellum.

I Romani subirono però alcune sconfitte da parte di nemici storici – «costruiti» come tali nel tempo, secondo la felice formula di Umberto Eco10 – tanto brucianti da rappresentare un’onta difficilmente cancellabile. In tal caso si parlava di clades («sciagura, disastro») in quanto conseguenza di una caedes («strage»), fenomeni dei quali proporrò ora solo qualche esempio11.

Canne e Carre 

Mi riferisco in primis al disastro di Canne (216 a.C.) – raccontato nei dettagli da Polibio (Storie, III) e Tito Livio (Ab Urbe condita XXII) – che però secondo lo storico Giovanni Brizzi12 fu di tale proporzione da suscitare nei Romani la reazione morale che consentì loro la vittoria finale nella guerra annibalica (202 a.C., battaglia di Zama). Mi piace, a questo proposito, citare una bellissima considerazione dello scrittore Paolo Rumiz:

Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. Canne è la più orrenda strage del mondo antico, l’epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte “moderna”; la stessa che racconta Remarque a proposito della Grande guerra. A Canne si celebra l’epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all’eternità.13

Già ho accennato all’ingloriosa sconfitta contro i Parti a Carre (53 a.C.), che vide una strage di soldati, la morte di Crasso e la vergogna della sottrazione delle insegne legionarie: la loro resa da parte del re Fraate (cui forse fu pagato un riscatto…) ad Augusto fu sfruttata da quest’ultimo per scopi propagandistici, tanto che raffigurò la scena della restituzione sulla corazza della sua statua cosiddetta «da Prima Porta», ora ai Musei Vaticani14.

Nella selva di Teutoburgo 

Povero Augusto! Nel 9 d.C., proprio pochi anni prima di morire e diventare quindi divus quasi impazzì di dolore (ce lo racconta Svetonio, Vita di Augusto, 23) per la Variana clades, cioè l’imboscata nella Selva di Teutoburgo subita da tre legioni romane comandate da Publio Quintilio Varo. Le truppe germaniche – guidate dal “mitico” Arminio – uccisero o ridussero in schiavitù i legionari romani; gli ufficiali superstiti invece si suicidarono per la vergogna, secondo la narrazione di Cassio Dione (Storia romana, LVI, 20-22).

Ancora qualche anno dopo (siamo nel 14-16 d.C.) Germanico Cesare, figlio di Tiberio e nipote adottivo di Augusto, durante una missione in Germania poteva vedere i resti – umani e non – di quella battaglia, come descritto da Tacito:

Nel mezzo del campo biancheggiavano le ossa, sparse o a mucchi, a seconda che i soldati erano fuggiti o s’erano fermati a resistere. Accanto a loro, frammenti di armi, carcasse di cavalli e teschi umani piantati nei tronchi degli alberi. Nei boschi attorno, are barbariche, accanto alle quali avevano massacrato i tribuni e i centurioni delle prime compagnie. (Tacito, Annali 1, 61, trad. D. Mazzoccato).

Stele del centurione Marco Celio, Bonn, Landesmusem.

E chissà se Germanico vide anche le spoglie del centurione di origine bolognese Marcus Caelius, la cui stele (CIL XIII, 8648, con numerose riedizioni) è ora conservata al Landesmuseum di Bonn? La sua iscrizione funebre è infatti solo un cenotafio, presso il quale sarà però possibile – scrive il fratello – «conferire le sue ossa», qualora vengano riconosciute. L’epigrafe ne ricorda il grado (centurione della legione XVIII), l’età (53 anni e mezzo) e soprattutto il fatto che lo ha reso, suo malgrado, protagonista della “macro-storia”: cecidit in bello Variano («cadde nella guerra condotta da Varo»). Inoltre Celio è rappresentato in “alta uniforme” con tanto di decorazioni (corona, braccialetti, borchie) che nell’esercito romano erano l’equivalente delle nostre medaglie al valore: ciò conferisce al soldato – pur se sconfitto – una certa dignità.

Imperatori in catene 

Nessuna dignità, invece, nella postura di due imperatori romani sconfitti raffigurati in un rilievo rupestre, corredato da iscrizioni celebrative (Res Gestae Divi Saporis), visibile a Naqsh-e Rostam, presso Persepoli (odierno Iran). A trionfare – stavolta – è il re persiano della dinastia sassanide Shāpūr I, il quale, seduto sul cavallo, tiene prigioniero Valeriano, sconfitto nel 260 d.C.; davanti a loro Filippo l’Arabo, che il sovrano iranico aveva obbligato alla resa nel 244 d.C. Che strano vedere due principes, uno con le mani legate, l’altro in ginocchio, proprio come l’arte romana ufficiale (per esempio sulla Colonna Traiana) raffigurava di solito i barbari vinti! Ma il corso della Storia stava ormai mutando e dell’eternità del dominio di Roma (l’imperium sine fine di cui parlava Virgilio in Eneide, I, 279), per il quale milioni di uomini erano morti nei secoli, si cominciava a dubitare15.

Possibile una conclusione? 

Ma sarà poi stato davvero dulce et decorum pro patria mori (cioè «dolce e bello morire per la patria») come cantava Orazio (Odi, III, 2, 13)16 sulla scia del greco Tirteo (fr. 6 Diehl)? Oppure, almeno dopo la riforma dell’esercito in chiave volontaria e professionistica di Gaio Mario (107 a.C.), morire in guerra era solo un brutale “incidente di percorso” per esponenti di ceti subalterni arruolatisi per necessità o per nobili in cerca di gloria? E poi cosa significa davvero pro patria mori? Morire per difendere i propri confini e valori o per cercare di estendere i territori della patria andando a imporre ad altri il proprio dominio politico e culturale? Domande troppo complesse perché se ne possa trattare in breve; certo è che proprio quel verso di Orazio divenne il titolo della celebre poesia di Wilfred Owen (1893-1918) pubblicata postuma nel 1920 dopo che il poeta-soldato britannico, arruolatosi volontario nella Grande Guerra – era morto in battaglia. Egli – che descrisse gli orrori della guerra in forme quasi “ungarettiane” – definisce questa massima the old lie («la vecchia menzogna»)17, e io penso che avesse ragione. Forse avrebbe dovuto, prima di arruolarsi, dar credito alle parole che Cassandra pronuncia al v. 400 delle Troiane di Euripide, cioè: «La guerra, bisogna che la fugga chi ha giudizio» (trad. F.M. Pontani)18. Ma si sa che, da che mondo è mondo, Cassandra non l’ascolta mai nessuno; e noi tutti – osservatori attenti delle guerre di ieri, ma soprattutto spettatori angosciati di quelle di oggi – ne abbiamo una quotidiana, drammatica, conferma.


NOTE

  1. M. Reali, Amicitia militum: un rapporto non gerarchico?, «Actes du Congrès ‘La Hiérarchie (Rangordnung) de l’armée romaine’, Lyon 1994», a cura di Y. Le Bohec, Paris 1995, pp. 33-37.
  2. Ottima la rassegna bibliografica sulla guerra antica in M. Bettalli, I Greci e i Romani e… la guerra, Carocci, Roma 2024, pp. 211-226, cui rimando ampiamente. Citerò solo gli utilissimi G. Brizzi, Il guerriero, l’oplita, il legionario, Il Mulino, Bologna 2002 e M. Bettalli, Un mondo di ferro. La guerra nell’antichità, Laterza, Roma-Bari 2021. Per l’esercito di Roma è poi fondamentale Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, Carocci, Roma 1993. Numerosi e ricorrenti i convegni sul tema: l’ultimo, dagli atti ancora inediti, è «War in the Ancient World International Conference 2024» (Graz, giugno 2024).
  3. Lirici greci, a cura di F. M. Pontani, Einaudi, Torino 1969.
  4. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano, G. Serra, Mondadori – Valla, Milano 1980.
  5. Sul senso del “pacifismo” di Aristofane, si vd. la recente introduzione (spec. pp. 10-11) di G. Zanetto ad Aristofane, Acarnesi, Carocci, Roma 2024.
  6. Tucidide, Guerra del Peloponneso, trad. F. Ferrari BUR, Milano 1985.
  7. L. Canfora, Il mondo di Atene, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 206-235.
  8. Le citazioni tradotte sono da: Lucano, Farsaglia o la guerra civile, trad. di L. Canali, BUR, Milano 1997.
  9. Le traduzioni di Tacito sono tratte da Storici latini, Newton Compton, Roma 2011.
  10. U. Eco, Costruire il nemico, La Nave di Teseo, Milano 2020.
  11. Delle maggiori vittorie e sconfitte militari di Roma tratta L. Zerbini, Le grandi battaglie dell’esercito romano, Odoya, Bologna 2015.
  12. G. Brizzi, Canne. La sconfitta che fece vincere Roma, Il Mulino, Bologna 2016.
  13. P. Rumiz, Annibale. Un viaggio, Feltrinelli, Milano 2008, p. 102.
  14. Ancora fondamentale per una lettura propagandistica dell’arte augustea è P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Einaudi, Torino 1989.
  15. Sul valore propagandistico dell’arte ufficiale sassanide vd. passim M. Compareti, Dinastie di Persia e arte figurativa, Persiani editore, Bologna 2019; sul concetto romano, politico e militare, di imperium, fondamentale è G. Brizzi, Imperium. Il potere a Roma, Laterza, Roma-Bari 2024.
  16. La citazione tradotta è da Orazio, Odi, trad. di L. Canali, Mondadori, Milano 2004.
  17. Ho consultato: W. Owen, Poesie di guerra, a cura di S. Rufini, Einaudi, Torino 1985.
  18. Da I tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide, Newton-Compton, Roma 2010.

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Una passeggiata tra i funghi: la Micoteca di Torino #1 https://laricerca.loescher.it/una-passeggiata-tra-i-funghi-la-micoteca-di-torino-1/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=una-passeggiata-tra-i-funghi-la-micoteca-di-torino-1 Sat, 08 Feb 2025 14:47:05 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=24008 L’Orto botanico di Torino “nasconde” uno scrigno di raro valore e ricchezza: la “Micotheca Universitatis Taurinensis”.

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Credits: Micotheca Universitatis Taurinensis.
Due scambi con i micologi

La prima volta che ho incontrato Matteo Florio Furno ero seduto in un bar, mentre boccheggiavo in un afoso pomeriggio d’estate. Torino era svuotata dei suoi abitanti, che con ogni probabilità si addensavano sonnacchiosi in qualche spiaggia in giro per il mondo. La città, in compenso, era colma di una spessa coltre di umidità che si incollava alla pelle, rendendo difficoltoso persino battere le palpebre. In compagnia di Caterina, che in quel momento lavorava per l’Orto botanico di Torino, stavo attendendo due sconosciuti sfidanti per la partita di padel che avevo in programma, una parentesi piuttosto infruttuosa della mia attività sportiva con una racchetta in mano. Dopo pochi minuti ho visto spuntare due giovani ragazzi sulla trentina che si sono presentati come Matteo e Marina, entrambi micologi ed entrambi ricercatori per la Micoteca di Torino.

Ora, al di là dell’interesse che avevo al tempo per il gioco del padel e della mia voglia di competizione in un torrido pomeriggio torinese, la mia attenzione fu attratta immediatamente da queste due informazioni sorprendenti: micologi e Micoteca. Devo ammettere che nella mia vita non mi sarei mai aspettato di giocare a padel, figuriamoci di farlo contro due micologi della Micotheca Universitatis Taurinensis, detta Mut, ma questo è il bello di buttarsi in attività fuori dal proprio tracciato. Ancora prima di iniziare il match e di vedere come sarebbe andato a finire, il mio desiderio era quello di saperne di più su quella che sembrava a tutti gli effetti un surreale archivio di funghi: si trattava di una notizia fantastica.

La mia curiosità, però, dovette attendere. Le incombenze quotidiane spesso tendono a mettersi di traverso e a rallentare il raggiungimento dei nostri desideri. Qualche mese dopo, in un novembre con temperature decisamente più rigide rispetto a quell’afoso giorno d’estate, mi recai all’Orto botanico di Torino, dove mi ero dato appuntamento con Matteo e dove si trova la Micoteca. Onestamente, prima che Caterina me ne parlasse non conoscevo la Mut, questo gioiellino della città in cui abito e di cui vado orgoglioso. Il cielo era di un blu acceso, spazzato dalla nevicata che pochi giorni prima aveva imbiancato i tetti e le vie della città. L’erba e le foglie degli alberi sempreverdi erano luminose e si mischiavano al luccichio del fiume. Ero entrato in un piccolo paradiso terrestre, minuziosamente curato e mantenuto con maestria. Non era la prima volta che visitavo l’Orto botanico, personalmente lo ritengo un piccolo spazio di quiete e condivisione con le piante e gli animali che lo abitano. Credo che la parola “visitare” in questo senso sia più che mai appropriata, perché quando entro in luoghi come questo mi sento un ospite in visita a qualcuno: qui uno degli amici a cui sono più affezionato è una nodosa e bitorzoluta Sophora japonica situata vicino all’ingresso, mentre il vero proprietario – o almeno pensa di esserlo e guai a contraddirlo – è Cornelio, una coriacea e bellicosa oca che nei suoi venticinque lunghi anni di vita ha rifiutato una compagna ed è sopravvissuta a una violentissima grandinata che ha persino forato le serre e abbattuto diverse piante e uccelli. Oggi, però, gironzola serenamente come un pastore nei suoi prati ed è meglio non darle troppa confidenza.
Dopo un breve vagabondaggio nell’Orto, sono entrato nel laboratorio di micologia, dove mi stava aspettando Matteo, questa volta in veste di tecnico della ricerca e dottorando. Era l’ora di fare sul serio e buttarsi a capofitto nell’esplorazione di un mondo fungino di cui ignoravo quasi del tutto l’esistenza.

Sophora japonica, Orto botanico di Torino. (Foto dell’autore)
Mut, immergersi in un mondo di ife

La Mut, o Micotheca Universitatis Taurinensis, è nata formalmente nel 1999 come collezione di funghi del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università degli Studi di Torino, ma affonda le sue radici già negli anni Sessanta, e nel tempo si è affermata anche come strumento di valorizzazione delle biotecnologie, ossia l’uso di organismi viventi per creare beni e servizi. Oggi è un laboratorio con strumentazioni avanzate in cui vengono studiate, analizzate e conservate un’enorme varietà di specie fungine grazie all’impegno e alle competenze di professori, tecnici, ricercatori, e laureandi. Una delle professoresse che ho avuto la fortuna di conoscere è Giovanna Cristina Varese, esperta in tassonomia, ecologia e biotecnologie dei funghi e responsabile scientifica della Mut. Cristina e Matteo mi hanno subito coinvolto grazie alla loro sconfinata passione per questi singolari esseri viventi di cui ignoriamo ancora moltissimo e mi hanno guidato in un pomeriggio di scoperte sorprendenti. Prima di iniziare il percorso, però, penso sia necessario capire di chi stiamo parlando.

Quando pensiamo a un fungo solitamente immaginiamo i tanto ricercati porcini che tra settembre e ottobre spuntano sulle tavole dei ristoranti e delle case, oppure ai più comuni champignon che abitualmente occupano gli scaffali dei supermercati. In ogni caso, la nostra immaginazione va a quella parte del fungo visibile, che si manifesta in maniera quasi spudorata e con indole esibizionista facendo capolino dal terreno o da tronchi umidi ricoperti di muschio. In realtà questa è solo il cosiddetto “corpo fruttifero” dell’essere vivente, ossia la parte dedita alla produzione di spore per la riproduzione, qualcosa di simile a ciò che avviene con i frutti e i semi per le piante. Ma il fungo è molto più di questo, come spesso accade. Innanzitutto, i funghi – o miceti – appartengono a un regno a sé stante e sono organismi eucarioti, eterotrofi, formati da una o più cellule. Spiegato così può sembrare estremamente didattico e forse anche un po’ noioso, per questo lascerei spazio alla descrizione di qualcuno che dedica la propria vita a questi organismi viventi:

Alcuni funghi, come i lieviti che fanno fermentare lo zucchero nell’alcol e aumentare di volume il pane, sono costituiti da una sola cellula che si moltiplica per gemmazione. La maggior parte, invece, forma reticoli di più cellule detti ife, sottili strutture filamentose che si diramano, si fondono e si aggrovigliano tra loro a formare la filigrana anarchica del micelio. Il micelio andrebbe pensato più come un processo che come una cosa in sé, la rappresentazione concreta della caratteristica principale dei funghi: la tendenza a esplorare e a proliferare. L’acqua e i nutrienti scorrono negli ecosistemi dei reticoli miceliari. Il micelio di alcune specie è elettricamente eccitabile e conduce onde di attività elettrica lungo le ife, in maniera analoga a quanto accade agli impulsi elettrici nelle cellule nervose degli animali. Le ife formano anche strutture più specializzate, come i corpi fruttiferi, che nascono dall’unione di questi filamenti e sono capaci di grandi prodezze oltre all’espulsione delle spore. (Sheldrake, 2020)

Ecco che siamo tornati ai nostri corpi fruttiferi, a quella parte che siamo soliti scorgere del fungo, ma che allo stesso tempo è solo una minima sezione della sua essenza. Quelle di “ife” e “micelio”, invece, sono nozioni che faremo bene a tenere a mente (si può vedere uno schema dell’anatomia di un fungo pluricellulare qui). In particolare, il micelio è una struttura, o meglio, un processo sorprendente: è contemporaneamente una singola entità reticolare e una collettività di ife in continua trasformazione; inoltre consente al fungo di nutrirsi e di riconoscere sé stesso o i suoi simili, ha una qualche memoria direzionale e percepisce l’ambiente circostante. Insomma, il micelio è qualcosa di sbalorditivo in grado di mettere in discussione alcune delle rigide categorie del pensiero umano. Ma i funghi, in questo senso, hanno la capacità di svicolare da scrupolosi incasellamenti. E Matteo me lo dimostra subito.

Una proliferazione di domande

Nella Mut i miceti studiati sembrano organismi iperattivi, restii a farsi catalogare in posizioni fisse e definitive all’interno di una gabbia vetusta – probabilmente è così che la considererebbe un fungo – come quella del sistema tassonomico di Linneo. Nel laboratorio, infatti, vengono scoperte continuamente nuove specie, mentre individui sono riclassificati in ordini diversi grazie a nuove scoperte. Fino agli anni Ottanta, l’identificazione di un fungo avveniva solo attraverso l’analisi morfologica: si osservavano le sue strutture riproduttive, la forma e le caratteristiche visibili; tutte informazioni fondamentali per la sua classificazione. Oggi, invece, l’avvento della tecnologia molecolare permette di analizzare il materiale nucleare del campione studiato e affiancare questo procedimento a quello tradizionale, ottenendo risultati più accurati. Ma non finisce qui: ai miceti sembrerebbe non essere sufficiente questa continua sfuggevolezza, questa tensione irrefrenabile al cambiamento. Per questi esseri viventi lo stesso concetto di “specie” sarebbe restrittivo, un vestito adatto a piante e animali, ma non a loro. Le differenze all’interno della stessa specie, infatti, possono essere enormi, al punto che nel 2013 il micologo Nicholas Money ha proposto di abbandonare la nozione di specie fungina (Sheldrake, 2020). A questo proposito oggi si preferirebbe parlare di “ceppo”, quando ci si riferisce ai funghi, un concetto più vicino a quello di “individuo”. Ma persino quest’ultima osservazione verrebbe subito ingurgitata e decomposta da funghi simbionti e micorrizici, che travalicano la definizione stessa di individuo, a noi umani tanto cara.

Foto dell’autore.

Sono entrato da pochi minuti all’interno della Micoteca e mi trovo già sopraffatto da una rete di informazioni in espansione. Mi sembra di esserne quasi sopraffatto, ma la volontà di esplorare l’ambiente che mi circonda mi spinge ad andare sempre un po’ più avanti e in profondità. Come l’ifa di un fungo mi addentro in questo mondo, fatto di stanze asettiche, camici bianchi e strumentazioni in movimento, e come un micelio tento di connettere tutte le sue parti, di stringere contatti con persone e informazioni fino ad allora sconosciute. Mi domando come si debbano sentire tutti questi funghi osservati in ogni loro movimento all’interno di capsule di Petri e beute coniche. Mi chiedo come si debba sentire Matteo, e tutti gli altri che lavorano in questo scrigno fungino. In quale percentuale hanno assimilato la “personalità” di questi meravigliosi esseri viventi. Anche loro sono in continua trasformazione? Anche loro sono completamente tesi all’esplorazione?

(continua)


Nota

Matteo Florio Furno è Dottorando in Scienze Biologiche e Biotecnologie Applicate e Tecnico della ricerca dell’Università degli Studi di Torino.

Giovanna Cristina Varese è Professoressa ordinaria dell’Università degli Studi di Torino in Botanica Sistematica e Responsabile Scientifica della Micotheca Universitatis Taurinensis.

Bibliografia

M. Sheldrake, L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi, trad. it. A Taroni e S. Travagli, Marsilio Editori, Venezia 2020.

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Un doloroso ritorno a Itaca https://laricerca.loescher.it/un-doloroso-ritorno-a-itaca/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=un-doloroso-ritorno-a-itaca Thu, 06 Feb 2025 13:10:56 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=23993 È appena uscito in sala il bellissimo film di Umberto Pasolini, “Itaca. Il ritorno”. Qualche riflessione.

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La locandina del film.

È appena uscito in sala il bellissimo film di Uberto Pasolini, Itaca. Il ritorno (2024), produzione italo-britannica ispirata agli ultimi canti dell’Odissea. Si tratta, a mio avviso, di un’operazione assai riuscita, perché coniuga la fedeltà narrativa alla fabula del testo epico (davvero veniali alcune varianti, tali da non meritare menzione) con un’attenzione alla psicologica e all’ethos dei personaggi che risente (anche) della nostra sensibilità contemporanea. Il che risulta più semplice se i protagonisti sono due attori di straordinaria bravura: Penelope è infatti Juliette Binoche, già premio Oscar per il Paziente inglese, dove recitò con Ralph Fiennes (sì, proprio l’Amon Goth di Schindler’s list) che in questo film è Odisseo.

Cratere a figura rosse con la strage dei proci da parte di Ulisse e Telemaco, forse da Capua, IV sec. a.C. (Museo del Louvre), Wikipedia Commons, pubblico dominio, autore Ismoon).
Odisseo e Penelope: eroi senza gloria

Il ritorno (nóstos) di Odisseo ad Itaca, da naufrago travestito poi da mendicante, è a tutti noto; il tutto mentre la fedele Penelope temporeggia nella scelta di un nuovo marito tessendo e disfacendo la famosa tela. Così come nota è la mattanza finale – già oggetto di riproduzione su antichi, bellissimi, vasi – dei proci, i pretendenti al ruolo di re (wanax) e di sposo che Odisseo aveva lasciati vacanti. In tutto ciò il film è, come dicevo, piuttosto fedele alla narrazione omerica. Non c’è però nulla di gioioso, eroico, glorioso, in questo finale, ma i due sovrani di Itaca sembrano sovrastati anche nel momento dello sperato ricongiungimento da un dolore più grande di loro; un dolore al quale gli dèi – assenti nel film – non possono fornire alcuna giustificazione, al quale neppure la proverbiale astuzia di Odisseo (ma neanche quella della moglie, la cui abilità nel tessere è – a detta degli studiosi – metafora dei suoi numerosi saperi) riesce a dare un qualche senso.

La guerra: il male assoluto

È il dolore di una guerra – quella combattuta a Troia – che ha visto scorrere troppo sangue, e che ha creato troppe vedove e troppi orfani sia tra gli Achei sia tra i Troiani. Odisseo incarna così, in più di una circostanza, un ruolo simile a quello di alcuni veterani statunitensi nei film sulla guerra in Vietnam: per lui l’impresa troiana non è infatti fonte di vanto, ma di sensi di colpa, ossessioni, perfino di paranoie. Anche Penelope è a lungo oppressa dal dolore e dall’angoscia per la sorte del marito, il quale, alla richiesta finale di raccontare quanto successo in vent’anni di assenza, risponde alla moglie che è meglio dimenticare. Questa richiesta di oblio, credo, non sarebbe però piaciuta troppo all’aedo Omero, che ci ha invece tramandato ogni cosa con le sue «parole alate»: quando mai, infatti, un eroe vorrebbe dimenticare o essere dimenticato? Eppure in questa auspicata censura del passato si coglie tutto il peso di un eroismo bellico che ha probabilmente esaltato il re di Itaca negli anni giovanili, ma del quale restano a lui, ormai maturo, soprattutto le evidentissime ferite morali e materiali, enfatizzate – queste ultime – dalle numerose cicatrici sul suo corpo ancora muscoloso generosamente esposte alla vista del pubblico. Non è vero, insomma, come cantava il Generale di Francesco De Gregori che «la guerra è bella anche se fa male»; sembra che il regista ci voglia far capire che fa male e basta.

La rabbia di Telemaco

L’unica ferita forse non del tutto sanata è però il rapporto con il figlio Telemaco (impersonato da Charlie Plummer), qui ben lontano dai comportamenti propri di quel «complesso di Telemaco» del quale ha scritto qualche anno fa Massimo Recalcati (Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013). Infatti nell’Odissea Telemaco non è solo colui che ha un padre assente (come molti giovani d’oggi, dice Recalcati) ma è anche colui che lo cerca con paziente convinzione e infine lo ritrova, e lo psicanalista non esita a proporlo come una figura psichicamente equilibrata. Nel film il ragazzo esprime invece una rabbia indistinta sia verso la madre (che sospetta flirti con qualcuno dei pretendenti), sia verso il padre, del quale accetta il ritorno con un certo disappunto prima e distacco poi, pur aiutandolo nella carneficina finale: la sua scelta, però, sarà quella di partire, lasciare Itaca. Ma qui, proprio nel momento in cui sembra volersi distanziare da quel padre che non aveva mai realmente conosciuto, si mostra – almeno in questa voglia di partire e viaggiare – suo degno erede.

Tra statue e (presunti) tradimenti
Odisseo (testa marmorea, I sec. d.C., da Sperlonga), Wikipedia, pubblico dominio, autore Jastrow.

Due ultimissime note, proprie di chi, guardando il film, ha visto smuovere propri ricordi, culturali e no.
Anzitutto, davvero sorprendente in certi frangenti è la somiglianza di Ralph Fiennes con l’Odisseo trovato nella Grotta della Villa di Tiberio a Sperlonga, come pure quello di Juliette Binoche con una Penelope velata conservata ai Musei Vaticani. Credo che questi attori avranno nel mio immaginario la possibilità di contendere l’aspetto di Odisseo e Penelope a Bekim Femhiu e Irene Papas, protagonisti dell’Odissea televisiva di Franco Rossi (1968), la cui visione – ne sono certo – è stata una delle remote ragioni della mia passione per il mondo antico.

Ma è su ancora Penelope che vorrei, da ultimo, tornare. Mi è piaciuto il sottile e umanissimo modo con il quale nel film si accenna a una certa simpatia, probabilmente un’attrazione fisica, che lei – pur fedele al marito (o almeno al suo ricordo) – provava per Antinoo, il quale è proposto come il meno volgare e più sincero dei suoi numerosi spasimanti.

Penelope (statua marmorea, I sec. d.C., Musei Vaticani; foto dell’autore presso la mostra “Serial classic” tenutasi nel 2015 alla Fondazione Prada di Milano).

Già Apollodoro – mitografo greco di età romana imperiale – aveva scritto «sappiamo che Penelope fu sedotta da Antinoo» e ipotizzò addirittura che Odisseo per questo o altro tradimento l’avesse uccisa, dando a Maria Grazia Ciani lo spunto per un bellissimo romanzo (La morte di Penelope, Marsilio, Venezia 2019). Nel film nulla di tutto questo accade, ma il dolore della regina per il sangue versato di Antinoo, l’ultimo dei proci ammazzati, lascia supporre che negli anni di solitudine più di una volta la sua fedeltà avesse virtualmente vacillato: d’altronde Odisseo, reduce da Troia, non si era certo fatto mancare le avventure sentimentali con Circe e Calipso. Ma mi rendo conto che sto scadendo nel gossip epico, cosa che un film con questa potenza di immagini, densità di dialoghi, suggestioni paesaggistiche, non merita proprio. Merita, invece, una visione, anche (e soprattutto) da parte di chi – studenti o docenti – legge a scuola i poemi omerici.

 

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I Quaderni della Ricerca #83 https://laricerca.loescher.it/i-quaderni-della-ricerca-83/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=i-quaderni-della-ricerca-83 Wed, 05 Feb 2025 15:33:03 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=23937 “I portici di Bologna visti dai ragazzi”, di Antonella P. Merletto

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I portici di Bologna visti dai ragazzi è un progetto digitale, elaborato da un gruppo di ragazzi del Liceo Scientifico “Enrico Fermi” di Bologna nell’ambito delle 100 ore di PCTO, che mira a rendere interessanti i portici, patrimonio UNESCO, agli occhi delle e dei giovani della loro stessa età.

Un lavoro impegnativo e coinvolgente, attraverso il quale i ragazzi, con grande entusiasmo, hanno potuto ideare, sviluppare e completare un “poster parlante” sui 12 portici, grazie al supporto costante di ASPPI (Associazione Sindacale Piccoli Proprietari Immobiliari) e di ASPPINext.

Il lavoro è stato anche possibile grazie al patrocinio del Comune di Bologna, del Liceo Scientifico “Enrico Fermi” di Bologna, di Loescher editore, di AIFS University Rome e di Ambienta.

Antonella P. Merletto insegna a Roma in diversi istituti universitari americani. Laureata in Architettura, ha una specializzazione in Architettura Greca e Romana, conseguita alla Scuola Archeologica Italiana di Atene (Grecia) e un dottorato di ricerca in Architettura e Ingegneria antica, conseguita all’Università di Bath (UK). È inoltre guida turistica certificata per la città di Roma e Provincia. Collaboratrice per i progetti culturali di ASPPI Bologna, è la tutor e promotrice del progetto I portici di Bologna visti dai ragazzi.


Il libro è in vendita negli store online (Ibs, Feltrinelli, Amazon) e ordinabile in tutte le librerie.
Il pdf completo è in vendita sul sito di Loescher editore e fruibile su MyLim.

Le e gli insegnanti possono contattare le agenzie Loescher di zona: https://www.loescher.it/agenzie.

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Ripensare la tradizione #2. I silenzi di Manzoni https://laricerca.loescher.it/ripensare-la-tradizione-2-i-silenzi-di-manzoni/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ripensare-la-tradizione-2-i-silenzi-di-manzoni Wed, 05 Feb 2025 10:34:17 +0000 https://laricerca.loescher.it/?p=23977 Riflessioni sulla rappresentazione del Seicento offerta da Manzoni nei Promessi sposi.

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Immagine Ron Porter – Pixabay

Nel Seicento scrivevano male

I promessi sposi, come è noto, non incominciano con la celebre descrizione del Lago di Como, cioè con le prime righe del capitolo 1, ma con l’Introduzione: «L’Historia si può ueramente deffinire una guerra illustre contro il tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia». Il manoscritto da cui Manzoni finge di copiare la prima pagina del suo romanzo si apre con una serie di considerazioni retoriche, che Manzoni puntualmente contraddice nel suo libro. Per lui infatti scrivere di storia non significa richiamare in vita gli anni trascorsi, passarli in rassegna e schierarli di nuovo in battaglia, qualunque cosa si intenda con queste metafore, ma analizzare il passato, cioè mostrare i meccanismi politici, economici, sociali, culturali, che caratterizzano una certa epoca; non «operationi diaboliche», quindi, ci mostrerà l’autore moderno, ma errori e debolezze umane, imputabili soprattutto a coloro che, secondo il servile anonimo del XVII secolo, «con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti».

Ma questo incipit non serve solo a chiarire uno dei meccanismi narrativi portanti del romanzo (la figura di un narratore inattendibile, accanto a quello che fa da portavoce dell’autore) e a enunciare uno dei temi di fondo dell’opera (la riflessione sulla storia e su come raccontarla). Chi legge, infatti, resta colpito innanzitutto dalla scrittura dell’anonimo – la sua lingua e il suo stile – e su questo , una volta conclusa la falsa citazione, si concentra l’io narrante: quasi tutta la seconda parte dell’introduzione è dedicata a spiegare perché Manzoni si sia impegnato a «rifar l’opera altrui», sostituendo alla «intollerabile… dicitura» dell’anonimo quella che scopriremo a partire dal capitolo 1. Ma quello che vorrei chiarire è che l’anonimo non è un caso isolato: tutto il romanzo conferma come si tratti viceversa di un caso tipico – la letteratura del XVII secolo (questo sta dicendo in realtà Manzoni) adottava uno stile ampolloso, ridicolmente retorico, affollando metafore lambiccate, concetti campati per aria, riferimenti mitologici gratuiti; a questi difetti Manzoni contrappone la sua ricerca di uno stile moderno, cioè piano, concreto, razionale, e alla difficoltà di una lingua che si compiace della propria astratta dottrina l’efficacia di una lingua viva, il fiorentino parlato dalle persone colte, capace di diventare la lingua della futura Italia unita e di rispondere a tutte le esigenze della comunicazione, letteraria e non.

Sul piano dell’argomentazione, diciamo pure della polemica, la trovata manzoniana ha un’indubbia efficacia. Al prezzo, tuttavia, di un’evidente forzatura: Manzoni non poteva ignorare che la prosa italiana del Seicento offre ben altri modelli, e che, al netto dell’esagerazione ironica, la scrittura da lui attribuita all’anonimo non è affatto rappresentativa. Ecco due brani tratti da opere contemporanee a Renzo e Lucia:

1. Bertoldo incominciò a caminare innanzi agli altri di buon passo, sì che era discosto da loro un buon tratto di mano. Quando coloro che l’accompagnavano viddero le guardie all’ordine per far il fatto ed essendo omai Bertoldo arrivato da quelle, cominciarono da discosto a gridare che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio, che così aveva ordinato la Regina. Le guardie, vedendo Bertoldo innanzi agli altri, pensando che esso fusse il capo di tutti, lo lasciarono passare senza fargli offesa alcuna, e quando giunsero i servi gli cominciarono a tempestare di maniera con quei bastoni che gli ruppero le braccia e la testa…

2. L’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: […] extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore.

Il primo è tratto da Le sottilissime astuzie di Bertoldo di Giulio Cesare Croce, opera di uno scrittore semi-colto, destinata a un pubblico popolare e accolta effettivamente con molto favore. Il secondo è tratto dal Dialogo sui massimi sistemi di Galileo Galilei, opera di argomento scientifico e filosofico, destinata anch’essa a un pubblico più vasto di quello degli specialisti, come rivela la scelta del genere (il dialogo) e della lingua (l’italiano anziché il latino).

Si tratta di due esempi che ci dicono come nel XVII secolo esistesse e fosse praticata in Italia una forma di scrittura concreta, lineare, aliena dai concettismi barocchi e dal gioco intellettualistico delle metafore e delle citazioni classicheggianti dell’anonimo. Manzoni tuttavia, nel romanzo, non fa mai cenno a questo aspetto del Seicento, e tutte le citazioni da testi dell’epoca (che siano le gride o i documenti storici sulla peste) presentano tutti o in parte i difetti della pagina incipitaria. Perfino quando allude senza citare (per esempio parlando della biblioteca di don Ferrante, o delle opere di Federigo Borromeo) Manzoni lascia intendere che tutto il secolo sia riconducibile al grottesco falsetto dell’anonimo.

Analogo discorso si può fare se dall’Italia allarghiamo lo sguardo all’Europa e in particolare alla Spagna, che governava per l’appunto il Ducato di Milano. La Spagna viveva nella prima metà del Seicento il suo Siglo de oro, con autori come Cervantes, Quevedo, Góngora, Calderón de la Barca, Lope de Vega, Tirso de Molina (l’autore del primo Don Giovanni) e Baltasar Gracián. Anche su questo Manzoni tace, e riduce la Spagna del Seicento a cattivo governo, sussiego, punto d’onore e insomma a tutte le caratteristiche negative che emergono nella scena del banchetto in casa di don Rodrigo e sono confermate su un piano di verità storica documentata dai comportamenti del cancelliere Ferrer.

Un secolo senz’arte e senza musica

In generale, il Seicento dei Promessi sposi sembra essere un’epoca di decadenza culturale senza appello. Noi sappiamo benissimo che non è così, e lo sapeva benissimo anche Manzoni: in campo musicale e artistico, l’Italia produce nella prima metà del secolo una quantità impressionante di capolavori, di cui nel romanzo non v’è alcuna traccia.

La musica, nei Promessi sposi, è sempre legata a situazioni negative, dalla “canzonaccia” che intonano i due bravi dopo lo scellerato incontro con don Abbondio ai canti ancora più turpi dei diabolici monatti a cui Renzo è costretto ad accompagnarsi quando torna a Milano nel pieno della peste. Manzoni non poteva ignorare, tuttavia, che proprio nel primo trentennio del XVII secolo si colloca l’attività di uno dei più grandi compositori di tutti i tempi, Claudio Monteverdi, e non poteva ignorare che proprio Mantova, la città contesa nella guerra a cui il romanzo dedica molte pagine, era uno dei centri dove si affermava il genere del melodramma, destinato a immensa fortuna in tutta Europa e parte fondamentale della cultura milanese ai tempi di Manzoni (il Teatro alla Scala viene inaugurato nel 1776, pochi anni prima dalla nascita dello scrittore).

Manzoni non dedica nemmeno una riga alle arti figurative, se non per ironizzare sulle immagini popolari del purgatorio (siamo ancora nel I capitolo, dove è descritto il tabernacolo al bivio per cui passa don Abbondio, “sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là”); o per criticare la funzione retorica che le classi dominanti attribuiscono ai ritratti (si vedano quelli degli antenati di don Rodrigo, nel suo palazzotto, e quelli dei dodici Cesari, nello studio dell’Azzecca-garbugli). Anche in questo caso, non è verosimile che Manzoni ignorasse come non solo a Roma, con Bernini e Borromini, ma anche a Milano, con i cosiddetti “caravaggeschi” come il Cerano, Daniele Crespi e altri, nei primi decenni del Seicento venivano prodotte grandi opere d’arte.

Estetica e ideologia

Come si spiegano questi tanti silenzi da parte dell’autore? Come si spiega, se vogliamo dirla in modo più drastico, la falsificazione a cui Manzoni sottopone il “suo” Seicento?

Il secolo in cui è ambientata la vicenda di Renzo e Lucia è molto più di uno sfondo, di un “contesto storico” del romanzo: per certi versi anzi è possibile affermare che il Seicento è il vero protagonista dei Promessi sposi, in quanto gli avvenimenti storici e più in generale la mentalità del periodo condizionano il destino di tutti i personaggi. Nel ricostruire quest’epoca, tuttavia, Manzoni compie una serie di scelte radicali e non esplicitate: anzi, si presenta con l’atteggiamento dello storico, capace di offrire un’immagine obiettiva, fondata su documenti e dati di fatto inoppugnabili, laddove in realtà offre ai suoi “venticinque lettori” una visione del XVII secolo parziale, soggettiva e tratti perfino umorale.

È possibile che nello scrittore lombardo agisca una forma di autocensura: Galilei era un autore all’indice, e quindi assai scomodo, per un cattolico, sia pure imbevuto di illuminismo; la Chiesa, nell’Ottocento, si ostinava a considerare il teatro musicale una forma di intrattenimento moralmente condannabile. È possibile, ripeto, che Manzoni non abbia osato citare alcune delle glorie culturali dell’Italia seicentesca, come l’invenzione del metodo scientifico e del melodramma, per queste ragioni – ma è poco probabile, in uno scrittore che coraggiosamente dedica tante pagine alla storia di una monacazione forzata e che fa di un prete pavido e indegno del suo ruolo uno dei protagonisti della vicenda che narra.

Le ragioni dei silenzi di Manzoni vanno piuttosto cercate nel progetto complessivo da cui nascono I promessi sposi. Manzoni aveva cioè bisogno di mostrare un’epoca di decadenza e di corruzione (morale, economica, politica, ma anche culturale e artistica) per meglio mettere in risalto i temi di fondo del romanzo: la riflessione sulla giustizia, sul potere, sul valore sociale dei princìpi evangelici e così via. Manzoni sa che l’estetica ha sempre un valore ideologico: non poteva mostrare un secolo artisticamente e culturalmente ricco, perché ciò avrebbe introdotto nel romanzo un elemento di debolezza irrimediabile. Il Seicento doveva essere una “età sudicia e sfarzosa”, e quindi l’autore ritaglia il quadro a seconda delle sue esigenze, escludendone non solo gli imbarazzanti Galilei e Monteverdi, ma anche i cattolicissimi Bernini, Góngora e Calderón.

Perché vale la pena di soffermarsi su questi aspetti dei Promessi sposi? Simili operazioni di ritaglio e di messa a fuoco prospettica sono alla base di qualunque progetto artistico. Naturalmente, dato il peso che I promessi sposi hanno avuto in Italia negli ultimi due secoli, in ambito scolastico e non solo, Manzoni sembra avere una grave responsabilità nella visione distorta del Seicento che, senza sua colpa in realtà, il romanzo ha contribuito a diffondere e a consolidare, a dispetto delle clamorose correzioni di studiosi come Croce, Getto, Raimondi e altri. Tenerlo presente è utile, sia nel momento in cui si parla del Seicento, sia nel momento in cui si parla dei Promessi sposi. La tradizione si crea anche in questo modo, attraverso schematizzazioni e falsificazioni, correzioni di rotta e progressivi arricchimenti del quadro.

(continua)

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